Sofia Coppola racconta la sua “Traviata”

Sofia Coppola racconta la sua “Traviata”

«La musica travolgente, i costumi che sono opere d’arte, l’eleganza italiana per raccontare una storia così passionale. Credo che anche il Giappone sarà stordito da Violetta, perso per questa eroina verdiana, così come lo sono stata io». Lost in Traviata: Sofia Coppola, alla vigilia dello sbarco a Tokyo dello spettacolo di cui firma la regia, ripercorre la sua prima avventura con un’opera lirica e l’incontro con una donna così diversa da tutti i personaggi femminili dei suoi film. «Una party girl, che ama il bel mondo delle feste, che fa affidamento sul suo fascino, ma con un cuore sensibile e romantico: io ho cercato di sottolineare la sua vulnerabilità».

BUNKA KAIKAN
Dopo Lost in Translation, con gli indimenticabili Bill Murray e Scarlett Johansson, due americani persi dentro un lussuoso hotel di Tokyo nella più intraducibile storia d’amore, la regista americana incontra di nuovo il suo Giappone. Non quello minimalista e un po’ allucinato del suo film premio Oscar. Ma quello dei saloni monumentali del teatro Bunka Kaikan, costruito nel 1961 per celebrare i 500 anni della nascita della capitale orientale.
A settembre la sua Traviata è protagonista di una tournée (che comprende anche la Manon Lescaut con la regia di Chiara Muti) del Teatro dell’Opera di Roma che ha prodotto lo spettacolo da un’idea di Valentino Garavani e Giancarlo Giammetti. Debutto al Costanzi nel 2016 con un parterre hollywoodiano (Keira Knightley, Monica Bellucci, Kim Kardashian e papà Francis), incasso da record (due milioni e duecentomila euro, il più alto della storia del teatro), lo spettacolo-kolossal incontra ora il pubblico giapponese. «È una tragedia con un carattere universale», spiega, «i vincoli che la società impone alle donne sono riconoscibili in tutto il mondo».

Abiti haute couture, strascichi in tulle e taffetà, paillettes, piume e veli disegnati dall’imperatore della moda (da far perdere la testa, quello rosso Valentino), scene elegantissime della star degli studios Nathan Crowley con saloni fastosi, imponenti scalinate, magnolie e voliere, per «una sublime e tragica storia d’amore», che segna il debutto della regista nella lirica: «È un linguaggio universale», spiega, «perché parla alle emozioni. E tutti, in qualsiasi Paese, in Italia o in Giappone, possono avere una loro chiave d’ingresso».

La scelta di Sofia, di mettersi all’opera, fu una sorpresa per tutti. «Anche per me», racconta, «quando Valentino mi chiamò per propormi di lavorare insieme a questo progetto rimasi, sì, sorpresa. Non avevo mai affrontato uno spettacolo musicale», continua, «grazie a papà che ama la lirica, ne ho sempre ascoltata tanta. Regie, però, mai. Ma come dire di no a Valentino?». In poco tempo, subito al lavoro. «Mi ha fatto vedere i primissimi disegni e ho seguito le prove in sartoria per cercare di capire quale fosse il suo ritratto, che idea avesse in mente di quella donna. A lui era piaciuta molto la mia Marie Antoinette e proprio come in quel film ho cercato di rimettere vita in un personaggio, rispettando la storia, ma anche il linguaggio e le tradizioni del teatro musicale».
Conflitti di sentimenti e di interessi, Violetta, come la giovane Charlotte di Lost in Translation, è un’altra donna complessa del catalogo di Sofia. «Violetta fa quello che deve fare, interrompere una grande passione per tutelare gli interessi del suo amato. Un sacrificio estremo. Aver girato Marie Antoinette mi ha aiutato molto per entrare nell’animo di una ragazza francese di quel periodo e per riflettere più in generale sul ruolo delle donne».

I CONSIGLI
Francesca Dotto, che ha cantato Violetta al Costanzi e che sarà di nuovo in scena a Tokyo, fu particolarmente colpita dai consigli della regista e dalla profondità delle sue osservazioni. «Non credo che ci sia molta differenza tra un attore o un cantante», aggiunge la film-maker, «Si tratta comunque di riuscire a tirar fuori delle personalità. E far sì che la storia sia credibile. Certo, non puoi mai dimenticare l’importanza della voce. Devi mettere i musicisti in condizione di potersi esprimere al meglio: oltre che artisti sono anche un po’ atleti».

Più complesso l’impatto con il palcoscenico: «Bisogna rimparare a guardare la scena. Osservare ogni cosa nel suo insieme. Dietro la cinepresa puoi decidere di mettere a fuoco un particolare. Con lo spettacolo dal vivo e in particolare nella lirica, hai il palcoscenico e l’orchestra, ma anche i macchinisti, le luci, tutto che deve marciare allo stesso ritmo. Una bella sfida».
Al momento non ci sono altri teatri all’orizzonte («sto scrivendo una nuova sceneggiatura, ma mi piacerebbe molto tornare in sala»). La definisce, infatti, un’esperienza che ha influenzato la sua creatività: «Ho amato la mia avventura romana. Confrontarmi con Traviata e con l’opera mi ha dato l’energia e il coraggio di poter osare in territori sconosciuti e meno familiari. Mio padre, agli inizi, mi ripeteva: non aspettare il permesso per fare le cose. Falle».

Simona Antonucci, Ilmessaggero.it

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