Le parole note: è un gioco di parole, appunto, che mette insieme brani celebri e musica, dando il titolo allo spettacolo con cui Giancarlo Giannini torna in palcoscenico il 25 agosto al Festival del Teatro Medievale e Rinascimentale di Anagni. Una sorta di jam session dove l’attore duetta, improvvisando, con il sassofonista partenopeo Marco Zurzolo. «Poesie d’amore – tiene a sottolineare Giannini – do voce ai poeti che hanno dedicato liriche alle donne, alla passione, alla vita, da Petrarca a Dante, da Neruda a Pedro Salinas… Poi mi diverto anche con Shakespeare, riproponendo il monologo di Amleto e l’orazione funebre di Marco Antonio sul corpo morto di Cesare».
Nel momento in cui ci risponde al telefono, però, sta studiando D’Annunzio: «”La pioggia nel pineto” è parecchio impegnativa: parole che sono già musica. Occorre trovare il tono giusto… ci provo, come ho sempre provato a fare questo mestiere». Eccesso di modestia? «No, la verità». Un mestiere iniziato studiando recitazione all’Accademia Silvio d’Amico: «Ci sono arrivato per caso. Non volevo fare l’attore, studiavo da perito elettronico, ero destinato ad altro, pensavo che sarei andato a lavorare all’Ibm… Quando mi proposero di fare un provino all’Accademia non immaginavo si trattasse di teatro, ma incredibilmente, forse perché avevo una bella voce, mi hanno preso. Un grande maestro mi ha rovinato». Chi? «Orazio Costa. Una volta, mentre stavo recitando con lui in classe un testo russo… non ricordo cosa fosse, ah sì, era Cechov, La domanda di matrimonio. Mi apostrofò categorico: tu sei bravo, ma stai attento, quando te lo dicono non ci credere, non dormire mai sugli allori. E da allora – continua Giannini – questa frase mi è rimasta piantata in testa, ancora oggi ogni volta che affronto un nuovo progetto è come se facessi questo lavoro da debuttante, riparto sempre da zero, devo trovare sempre una novità in quello che faccio, per scioccare un po’ il pubblico. Lo ripeto anche ai miei allievi del Centro Sperimentale».
Cosa? «Alcuni dimostrano subito un talento naturale, nascono attori, altri hanno bisogno di frequentare una scuola. Lo studio è molto importante, il rigore, le regole che devono essere rispettate, ma dobbiamo chiederci cosa vuole dire fare questo mestiere dal punto di vista filosofico, perché nessuno lo sa veramente. Noi attori raccontiamo favole al pubblico che viene a vederci perché vuole emozionarsi, paga per piangere o per ridere: la vita è monotona e noiosa, la gente sente il bisogno di fantasticare, pensare ad altro. Il nostro, dunque, non è altro che un gioco e infatti, correttamente, in francese recitare si dice jouer, in inglese to play… Noi in palcoscenico o nel cinema fingiamo, non dobbiamo immedesimarci, non dobbiamo credere a quello che diciamo o facciamo interpretando un ruolo: in fondo tutti recitiamo una parte nella vita, noi attori lo mettiamo semplicemente “in atto”. Quando sentite dire da un attore che sente dentro di sé il suo personaggio non è vero, sta mentendo! Oppure, probabilmente, non ha ancora capito come si fa!».
Eppure Giannini in tanti ruoli si è calato, lavorando con grandi registi italiani e internazionali: «Devo molto a Lina (Wertmüller nrd), con la sua fantasia è stata capace di scoprire in me aspetti che nemmeno io conoscevo. Ma colui che considero un vero maestro è Giorgio Albertazzi, era il più bravo di tutti, e mi piaceva osservarlo per carpirne i segreti, i trucchi che poi ho cercato di fare miei. Non era semplicemente un attore, ma un comunicatore. Oggi, purtroppo, si comunica molto in altro modo, una maniera becera». Cioè? «Mi piace citare in proposito una frase che disse Umberto Eco: “I social danno diritto di parola a legioni di imbecilli, che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel”. Oggi tutti fanno tutto – sospira – forse è meglio ritirarsi in solitudine e dedicarsi ad altro». Per esempio? «Sono molto bravo a cucinare: essendo nato in Liguria, il mio pesto alla genovese è eccezionale».
Emilia Costantini, Corriere.it