Mentre Milly Carlucci ti racconta, ti domandi come riesca ogni volta a trovare la parola più giusta, la più appropriata, per dire quello che dice. Spiega come tutto è iniziato, spontanea ed elegante. Come la sua scelta di tentare la strada dello spettacolo, ventenne, fosse stata per i suoi genitori «un gesto di follia. Erano persone molto serie, abituate a contare sul lavoro e sulla fatica che portano a un risultato… Non è detto sia quello che succede nel mio mestiere, dove serve una percentuale di buona stella in più».
La sua quando l’ha incontrata?
«Subito. Essere scelta da Renzo Arbore come inviata de L’altra domenica è stato un inizio clamoroso. Era l’epoca delle vallette: per passare da essere la ragazza che entrava, sorrideva e dava la busta ad altro, la strada era lunga. Invece ho iniziato parlando e pensando».
Avrebbe accettato degli anni da valletta muta?
«No. Stavo studiando Architettura, allenavo una squadra di pattinaggio e avevo bisogno di soldi miei. Per fortuna ero nel posto giusto al momento giusto: dopo Arbore non c’è stato più il dubbio che fossi una bella presenza e basta. Una cosa che non mi apparteneva».
In che senso?
«Non tenevo all’estetica, non ho mai chiesto di essere truccata, niente parrucchieri. Andavo in video e basta. Non stavo a pensare all’immagine, ma ai contenuti. Venivo dal liceo Classico, la mia mentalità era quella del fare: avere qualcosa da dire e dirlo bene. In tutti gli anni iniziali non ho minimamente pensato all’aspetto fisico».
Per com’è lo spettacolo oggi, sembra un’eresia.
«Eppure era così. La mia preoccupazione è stata quella di andare a studiare in America per preparami. Ho capito presto che non potevo fare spettacolo solo sfruttando l’istinto. Scelsi Los Angeles. Ho frequentato tante scuole, tanti corsi. Continuavo la carriera in Italia, ma appena potevo passavo dei mesi lì, studiando a singhiozzo, per tre anni di seguito, e spendendo tutto quello che guadagnavo. Ma sono stati soldi benedetti perché mi hanno aperto gli occhi».
Parlare di impegno, serietà, fatica, a molti sembra noioso…
«Io credo che dobbiamo affrettarci a recuperare il valore del rigore e della serietà, al di là della tv, perché sono alla base della competizione economica. È finita da un pezzo l’epoca in cui si poteva vivere su quello che avevano fatto i nostri nonni. Oggi la preparazione è fondamentale per presentarsi alla sfida della vita».
Eppure anche la politica sembra ragionare più su facili proclami, no?
«Certo, anche la politica è coinvolta. Noi, come popolo, non siamo bravi a fare sistema ma siamo fatti di personalità geniali, capaci di risolvere con un colpo di coda situazioni che in altre nazioni richiederebbero mesi e mesi. Ma sono convinta che oggi non possiamo più fare affidamento sulla genialità di pochi».
Se dovesse fare dei nomi di questi pochi?
«Penso a un abruzzese come Sergio Marchionne, che in 15 anni ha risolto una situazione – quella della Fiat – che pareva irrecuperabile e l’ha portata ad essere un grande successo mondiale. Ma dobbiamo imparare a far funzionare tutti le cose e capire che ci dobbiamo sacrificare, cambiando mentalità».
Lei sta cercando di farlo anche con Ballando con le stelle. Sempre più spesso ci sono concorrenti che aprono il dibattito. Quanto è diventato importante comunicare qualcosa che vada al di là dello spettacolo?
«È un piano, un obiettivo che mi sono posta. Se devi far passare messaggi importanti non puoi usare solo i luoghi ufficiali. Se spari nel mucchio, magari fai pensare qualcuno: è un’occasione preziosa per gettare un semino».
E come lo getti?
«Senza proclami, fai toccare con mano cosa voglia dire la normalità di queste vite, mostrandole».
Quando c’è stato il primo passo?
«Con Lea T. Lei, figlia di Toninho Cerezo. È nata uomo e oggi è donna. La sua non è stata solo la storia di una persona che fa una transizione transgender, ma quella di una famiglia che ha accolto in maniera positiva la realtà di un figlio».
C’è chi vede queste scelte come il desiderio di creare casi di cui parlare.
«Capisco, ma non è così. È successo anche quando è stata concorrente Nicole Orlando, atleta paralimpica. Siamo un palco anomalo per questi argomenti. Ma il ballo è un mezzo potentissimo di inclusione sociale. E noi siamo partiti da questo. Il pubblico ha potuto toccare con mano idee su cui magari non aveva mai riflettuto, o che rifiutava. Non esprimiamo un giudizio, non diciamo la devi pensare così. Trattiamo tutti allo stesso modo e ognuno costruisce la sua storia. A casa giudichi: non devi per forza amare chiunque fino alla fine, ma magari si è parlato di temi che erano tabù».
Ha esempi in questo senso?
«Quest’anno avevamo una coppia formata da due uomini. Un ragazzino ha scritto a uno di loro, Giovanni Ciacci, che aveva guardato la trasmissione con la nonna e che lei gli aveva detto che avrebbe votato per loro, perché «che c’è di male». Il ragazzino, allora, aveva trovato il coraggio di dirle che era gay. Non c’è niente da fare, la televisione dà dei modelli. Questa storia ha creato un putiferio: era un argomento pericoloso da toccare, potevamo perdere una parte di pubblico. Ma poi ci siamo detti: la same sex dance esiste, se non la mostriamo noi, chi?».
Gli insulti sono stati tanti…
«Chi urla ci sarà sempre e nel periodo dei social, chi prima le sue cretinate le diceva al bar, adesso ha una piattaforma globale con una eco enorme. Molti sono leoni da tastiera: se li inviti a discutere cambiano registro. Ma questa è la natura umana».
Anche la televisione è spesso aggressiva e volgare.
«La televisione urlata esiste da tempo immemorabile. Solo che prima era una nicchia, guardata con distacco dalla tv generalista. Poi il fenomeno è dilagato. L’azzannarsi gli uni con gli altri è diventata una pratica comune. Anche i talk show politici sono luoghi in cui c’è una tale cacofonia di voci per cui non capisci nulla».
Si dice che la tv non abbia il compito di educare…
«Lo dicono tutti quelli che se ne vogliono lavare le mani. Che tu lo voglia o no, crei modelli che diventano, per i più, un appetibile punto di arrivo. Oggi lo fanno la tv e il web. E così ci ritroviamo con il fenomeno devastante di queste persone che si fanno selfie imitando le situazioni dei divi in posa, creandosi una vita virtuale».
Perché lo chiama un fenomeno devastante?
«Perché lo è. Crei un’illusione di benessere e di successo, invece non è niente, è il nulla assoluto. Sono quattro foto con la boccuccia a “u”. Siamo nel vuoto totale. È l’illusione di fare parte di un mondo, per cui ti fai vedere come se fossi Kim Kardashian, per dirne una. Il web è ormai fuori dal controllo di chiunque, purtroppo. La tv è diversa, perché viene prodotta: quello che si fa ha un peso. Non a caso i grandi network americani hanno tra loro un accordo di comportamento e di limiti nei quali muoversi».
Lo vorrebbe anche in Italia?
«Forse serve a poco, ma se i canali generalisti stabilissero regole comuni sulla programmazione non sarebbe male. È complicato, mi rendo conto. Ma aprire un tavolo in cui ci si domanda dove vogliamo portare questa tv sarebbe buono. Giusto per non farci trascinare come vittime sacrificali in una debacle totale».
È molto cambiata la tv dall’inizio della sua carriera?
«Molto. Quando ho iniziato il controllo arrivava addirittura al colore delle calze delle ballerine. Va beh, un retaggio degli Anni 50. Ma la tv pubblica mantiene il dovere di rivolgersi in maniera corretta al pubblico e di indicare strade che possano far riflettere, con argomenti che non siano solo quelli del trash quotidiano».
Se le chiedo di condividere una lezione imparata in questi anni?
«Sono tante, ma penso a quella di Pavarotti. Lui, un gigante nel mondo, si presentava ogni volta sul palco come fosse il primo giorno, anche con il timore di riuscire a fare bene. Non lo dimentico».
È un complimento o le dà fastidio quando le dicono che è perfetta?
«Spesso viene detto come a denunciare una rigidità, una mancanza di sentimento ed emotività che non mi appartiene affatto. Il mio scopo è stato presto quello di essere a capo dei miei progetti: se vuoi questo ruolo, non puoi essere un giorno allegro e uno triste. Se lo vuole una donna, deve essere molto brava e anche più brava dei suoi colleghi uomini nel mantenere la razionalità. Molte esternazioni emotive devo tenerle per me».
Tra i suoi successi c’è anche la famiglia, non crede?
«Questi ragionamenti si fanno a 90 anni, a mio avviso. Solo lì ti puoi guardare indietro, perché nel mentre tutto è in evoluzione. Siamo una famiglia unita, c’è una grande solidarietà tra noi, questo sì».
Come era il rapporto tra sorelle?
«Litigavamo come belve da piccole: tre è un numero imperfetto, crei alleanze due contro uno che cambiano in continuazione. Ero la più grande: Gabriella e Anna tendevano a fare comunella contro di me, salvo quando litigavano loro e cercavano il mio appoggio (ride). Tutto finito con l’adolescenza».
Che mamma è?
«Ansiosissima: non è un mestiere che risolvi documentandoti. L’unica cosa che mi riconosco come medaglia al valore è che non li ho tenuti vicino per non sentirmi sola. Quando sono voluti andare in Inghilterra ho represso le mie ansie e li ho lasciati fare, passando mesi terribili. Sono entrambi andati via di casa a 15 anni e ora lavorano a Londra. Mi riconoscono che non sono stata la classica madre italiana che li ha voluti sotto le sue gonne e li considera bambini a 30 anni… In realtà io li considero bambini, ma solo dentro di me».
Vorrebbe dei nipotini?
«È un argomento che non abbiamo mai trattato: i miei figli non vogliono sentire pressioni e tutti e due hanno chiarito che non si sentono pronti per una scelta di vita definitiva con una persona. Nemmeno Angelica, che è più grande e donna. Se io, che sono un generazione preistorica in confronto, ho sentito l’esigenza di avere una carriera, figuriamoci lei. Mia figlia non si sente diversa dagli uomini e vuole lo stesso successo. Io, a suo tempo, ero nel grande conflitto per cui volevo una famiglia ma capivo che non sarei stata una madre e una moglie serena se non avessi anche lavorato».
Attraverso il Corriere ha fatto un appello alla Rai perché Carlotta Mantovan, moglie di Fabrizio Frizzi, potesse entrare in azienda. C’è stato un seguito?
«Pare – e dico pare perché le cose sono ufficiali solo dopo la firma – che Carlotta sia stata coinvolta già da questo autunno. Spero che tutto si realizzi. Sarò sempre grata a Fabrizio per aver potuto lavorare con lui divertendomi, con la gioia nel cuore. Quella parte di leggerezza che mi ha insegnato, ti aiuta a smontare i problemi e ridurli a quello che sono. Poca cosa, quasi sempre».
Chiara Maffioletti, Corriere della Sera