«The Staircase» ha inaugurato il filone del documentario «true crime», un nuovo approccio al racconto di casi di cronaca trasformati in racconti seriali
Chiamiamolo effetto Netflix: nel 2004 il regista francese Jean-Xavier de Lestrade produce un documentario in 8 episodi dal titolo «The Staircase», dedicato al caso giudiziario di Michael Peterson, romanziere ed editorialista, accusato dell’omicidio della moglie Kathleen, trovata morta nella sua casa in North Carolina. Va in onda nel 2005 in America su Sundance Channel e rimane una serie per i pochi intenditori che la scoprono. Poco tempo fa, a distanza di quasi 15 anni, Netflix ha trasformato «The Staircase» in un caso globale, rilasciando sulla piattaforma gli episodi originali e aggiungendone tre nuovi che seguono la riapertura del caso nel 2016, dando nuovo senso al concetto di «to be continued». Prima di «The Jinx», del podcast «Serial» e di «Making a Murderer», «The Staircase» ha inaugurato il filone del documentario «true crime», un nuovo approccio al racconto di casi di cronaca trasformati in racconti seriali che seguono da vicino il dibattimento processuale con un accesso importante ai protagonisti (indagati ma anche legali) che partecipano volentieri al racconto lasciandosi intervistare e seguire dalla telecamere ovunque, quasi fosse un reality.Come archetipo televisivo è impossibile non citare il caso O. J. Simpson e il suo impatto mediatico globale. Ci sono due aspetti della storia di Michael Peterson che colpiscono molto, illuminando lati inquietanti del rapporto tra media e casi di cronaca: il primo è la naturalezza e il cinismo con cui le telecamere entrano in casa di Peterson nella notte stessa della morte della moglie, seguendo dal primo minuto ogni fase della strategia difensiva. Il secondo è che la ricerca della verità sulla morte della povera Kathleen (uccisa o caduta accidentalmente dalle scale) diventa presto un accessorio, uno sfondo per la sfida processuale tra accusa e difesa, tra un imputato intellettuale e una giuria popolare, troppo popolare.
Aldo Grasso, corriere.it