Il conduttore di The Voice, origini aristocratiche, 41 anni, fu riconosciuto dal padre solo a 5. «Ero un bambino molto pigro che scappava per mangiare i krapfen»
Costantino della Gherardesca dice di essere stato «un bambino molto felice». Mentre parla, distende i primi quarant’anni della sua vita con grande facilità, come fossero un gomitolo di lana ben fatto, o un filo di perle riposto con cura nel suo astuccio, metafora che forse preferirebbe visto il suo amore per il lusso e per il bello. Eppure, se da una parte spiega il suo affetto per una famiglia «un po’ sopra le righe, specie mia mamma e mia sorella. Mio fratello, per reazione, è estremamente razionale, non si è mai fatto una canna, va a dormire alle 21.45 e ha sei figli»; con la stessa disinvoltura apre delle porte sul suo passato, ognuna delle quali, da sola, basterebbe per scrivere un romanzo.
Perché se è vero che «la mia memoria principale di quando ero piccolo era che tutti cercavano di farmi mangiare meno. Alle elementari volevo andare a scuola da solo… pensavano a un mio desiderio di indipendenza, la realtà era che svoltato l’angolo andavo in pasticceria a comprarmi un krapfen»; lo è altrettanto che questo bambino, nato in una famiglia aristocratica («di diverso c’era solo l’attenzione alla buona educazione: era fondamentale saper stare con gli adulti, sapermi comportare»), a nove anni è stato mandato in un collegio in Inghilterra. «Credo sia stato un bene. È importante che un bambino sia esposto ad ambienti e persone diverse, piuttosto che rimanere sotto una cupola solo con mamma e papà. Non condivido la tesi per cui “un bambino ha bisogno della mamma e del papà” anche per questo, oltre che per il fatto che sono discorsi superati dalla psicanalisi. Genitori single o gay sono bravi allo stesso modo».
Lui, suo padre l’ha perso molto presto. «Mi ha riconosciuto quando avevo cinque anni, ma i miei si erano lasciati prima che nascessi. Avevo un rapporto abbastanza sereno con lui: era buono quando lo vedevo, non accadeva spesso ma era sempre gentile». Non è stato un problema, dice, «anzi. Ho vissuto felicemente il fatto di non aver avuto un padre sportivo che mi obbligava a fare attività fisica. Ero un bambino molto pigro».
A cui però, in quel mondo matriarcale, «è stato insegnato subito il rispetto per le donne. Se non mi comportavo come un galantuomo mi beccavo gli schiaffi. E mi trovo ancora in grandissima difficoltà a discutere con una donna». Non stride con l’idea che siamo tutti uguali? «Non è molto egalitario, vero. Dovrei poter insultare una donna al pari di un uomo. Ma è una questione di verità storica, più che di massime kantiane: rispettare maggiormente una donna significa avere coscienza di quella che è stata la storia». Altri insegnamenti sono arrivati dal collegio. Nei primi anni «ho imparato a dare un valore enorme all’amicizia». Diventato adolescente, un altro collegio ha cambiato tutto. «Sfortunatamente sono finito in uno di destra, molto autoritario», spiega con la stessa grazia con cui ha usato ogni parola fino a qui. «Avevano capito che ero omosessuale e mi punivano per questo. Avevo 15 anni. Per temprarmi mi hanno fatto correre sulla neve a piedi scalzi. Cose simili, a cui mi ribellavo. Lì è iniziato il mio malessere».
La droga, di fatto. «E insieme sono arrivati gli attacchi di panico. A 21 anni la situazione era diventata estremamente pesante e a 23 ne sono uscito. È stato difficile. Quando ti droghi da giovane, si rallentano anche dei processi di maturazione». Tra questi, fa rientrare quello sentimentale: «Le prime volte che sono stato con qualcuno sessualmente, erano donne». Perché? «Perché non avevo ben capito che non era un passaggio obbligatorio. In genere erano più grandi. Una era un’artista, aveva 30 anni. Io 15, ma era una cosa che volevo, divertente anche se non sessualmente appagante. Sapevo che mi piacevano gli uomini, mi dichiaravo gay e avevo una pelliccia… ma mi ero anche già fatto l’acido: lo sviluppo di una sessualità vera è stato ritardato dalle droghe». Ha mantenuto un certo pudore nel parlare di amore. «È così. Ora non cerco una relazione stabile per vari motivi: devo concentrarmi sul lavoro e sui miei problemi di salute mentale, tipo gli attacchi di panico o la mia agorafobia. Non riesco a lavorare sull’amore». Alcune persone fanno venire voglia di lavorarci comunque… «Beh, se venisse a corteggiarmi Ewan McGregor o uno sceicco arabo, allora sì. Girerei solo documentari su Nigeria e Afghanistan finanziati da lui, sarei un uomo felice». L’idea di concentrarsi su programmi «che aprono verso il mondo», non è una battuta: «Credo che da noi il tema caldo, che va affrontato e superato, è più che mai il razzismo. Su questo mi impegno. Torniamo al mio relativismo e alla contingenza storica. È giusto fare battaglie gay, e un gay pride in Italia resta importante, ma è una fase che abbiamo passato e vinto. Un gay pride in India, viceversa, è un evento realmente di rottura».
Si è laureato in filosofia, al King’s College di Londra. «Già il fatto che studiassi filosofia fa capire che non ero molto accorto. Guardavo con disprezzo i quattro gatti che frequentavano, nel dipartimento vicino al mio, polemologia. Era molto prima dell’11 settembre: studiare guerre pareva assurdo, quei ragazzi ridicoli, obsoleti… in Italia si parlava di un Ulivo mondiale. Oggi sono tutti con dei super lavori nella diplomazia internazionale. Non aver fatto quel corso è un mio sincero pentimento. E non solo perché sono un fan enorme di James Bond».
Già allora pensava alla tv. Un ambiente in cui è una mosca bianca. «Molti miei colleghi sembrano amare le cose più brutte, squallide e volgari della vita, come le emozioni esibite pubblicamente, i drammi sentimentali in video. Io riesco a dire di amare con serenità solo un’opera d’arte concettuale o un piccolo cuscino tibetano». E il lusso… «Non bisogna vergognarsi delle cose belle». Prima di riporre la collana della sua vita nell’astuccio, resta il tempo per accennare a quello strano desiderio che lui chiama «cosa» e che «non riesco a spiegarmi, esula dalla ragione. A volte mi rattristo perché non ho un figlio e non lo posso adottare, anche se, secondo me, non gli farei mancare nulla. Esistono strade alternative, ma dare una casa a un bambino che ne ha bisogno sarebbe quella giusta per me. Speriamo che in futuro questo cambi. Però, lo ammetto, un po’ mi spiace».
Chiara Maffioletti, Corriere della Sera