Il film di Martin McDonagh è un invito a non arrendersi mai

Il film di Martin McDonagh è un invito a non arrendersi mai

Il film di Martin McDonagh è un invito a non arrendersi mai

Tre grandi cartelloni pubblicitari sono al centro di un bellissimo film che tratta questioni di grande attualità negli Stati Uniti: il razzismo e la questione femminile. Così il film quasi diventa a sua volta il manifesto di un potenziale rovesciamento in positivo di situazioni stagnanti. Tre manifesti a Ebbing, Missouri, premiato per la miglior sceneggiatura all’ultimo festival di Venezia e terzo lungometraggio del regista e drammaturgo britannico Martin McDonagh, si muove costantemente lungo una linea di confine. Ambientato nel Missouri dei nostri giorni, in una cittadina situata nel verde intenso di una vallata e incuneata tra le montagne circostanti, il film offre un ritratto di abitanti per lo più chiusi in sé stessi, di persone che hanno accumulato livore e grettezza, come se fossero afflitti dalle montagne incombenti invece che alleggeriti dal verde della vallata e degli spazi che li circondano. Come se all’interno di questa comunità fosse implosa, fin nell’animo di gran parte dei suoi abitanti, quell’ampiezza dei vasti spazi americani che proprio il cinema ha sublimato artisticamente e mitizzato come forse nessun altro mezzo d’espressione. Chiaramente questo rovesciamento lo si può leggere come una metafora di tutte le chiusure americane, ma anche di quelle italiane ed europee. Le ragioni della rabbia. A Ebbing, città immaginaria che rappresenta tutte le località che lo spettatore vorrà vederci, Mildred Hayes, interpretata da una Frances McDormand in gran forma, domina in un film per lo più composto da personaggi maschili, come il vicesceriffo ottuso, grottesco, aggressivo e insieme gigione interpretato da Sam Rockwell, o, in una certa misura, lo stesso sceriffo, interpretato da Woody Harrelson. Mildred vuole sempre dominare, quasi fosse posseduta da un demone. Come se secoli di frustrazione e oppressione maschile sulla donna la portino a eccedere, a essere perfino spietata, anche se il film mette altrettanto in luce quante ragioni abbia di esserlo. Donna divorziata da un marito violento, madre in rapporto conflittuale e insieme tenero con il figlio adolescente, non si è mai ripresa dall’assassinio della figlia stuprata e dal fatto che la violenza sia rimasta impunita, e fa di tutto perché si trovi la soluzione. Eccedendo, a volte a torto a volte a ragione. Come quando incarica il giovane direttore di un’agenzia pubblicitaria, altro personaggio interessante nella sua mascolinità poco chiara, di allestire sui tre giganteschi cartelloni pubblicitari situati sulla strada all’entrata della cittadina una campagna pubblicitaria per ricordare l’assassinio della figlia e per chiedere a che punto siano le indagini. Per scuotere le sabbie mobili. Un’iniziativa che provoca reazioni accese dando inizio a una specie di telenovela. Un nuovo clima. Il tono del film, in bilico tra dramma e commedia nera, non perde mai finezza, sfumature e intensità. McDonagh, conosciuto per i suoi provocatori lavori teatrali, lancia la sfida di un cinema umanistico, senza retorica, in un paese dove la cinematografia anche d’autore forse si compiace troppo nel ritrarre un’America solo cinica e nera, priva di ideali e generosità. Non tutti sono David Lynch, il quale del resto ormai è andato oltre, dato che il suo cinema ha raggiunto una dimensione eterea ma dalla grande profondità, mentre troppa cinematografia statunitense ancora si gingilla nel proporre l’ennesima variazione sul tema sul volto nero e grottesco della società americana. Magari a volte anche con risultati brillanti come nel caso di Suburbicon. Eppure la società americana sorprende ancora, anche in positivo, e forse l’esempio più eclatante sono state le primarie democratiche del 2016, quando Bernie Sanders ha dimostrato che un’intera generazione di giovani, profondamente interconnessa e al suo interno estremamente paritaria, desidera rapporti umani radicalmente nuovi oltre che una rinnovata parità socioeconomica. Per Sanders hanno infatti votato in misura quasi uguale giovani donne e giovani uomini, giovani neri e giovani bianchi, le altre minoranze (compresi tanti non giovani), i giovani etero e quelli della comunità lgbt. Il manifesto di questo nuovo clima resta la celebre simulazione in cui si mostrava che se alle ultime elezioni negli Stati Uniti avessero votato solo i giovani quasi tutti gli stati sarebbero andati ai democratici. Possibile che su circa 300 milioni di abitanti il cinema americano, decisamente troppo autoreferenziale, non sappia raccontare con generosità questa nuova America e il suo anelito a un mondo più generoso? Tre manifesti a Ebbing sembra condannare la presunta immutabilità delle persone. Giocando sul paradosso, potremmo dire che Tre manifesti fa lo stesso gioco di quest’altra cinematografia, fatto salvo che è esattamente l’opposto e coglie così il clima nuovo. Il grottesco trova un equilibrio perfetto con la sottile linea surreale, irreale e poetica del film. La struttura per certi versi teatrale (la ripetizione costante dei tre pannelli pubblicitari, quasi da meccanismo iterativo da strip a fumetti, le scenette nella stazione di polizia) regge perfettamente la dimensione più filmica, lasciando affiorare momenti aerei che sono ottimo e puro cinema, di cui la sequenza con Mildred Hayes e l’apparizione del cerbiatto resta l’esempio forse migliore. Il riflusso positivo. Soprattutto Tre manifesti sembra condannare la presunta immutabilità delle persone e delle situazioni, a cominciare da lei, la protagonista caparbia e dal volto fisso, fino ai personaggi dei poliziotti. Su questi vogliamo lasciare la sorpresa limitandoci ad accennare che Woody Harrelson (celebre e memorabile interprete di Mickey in Natural born killers – Assassini nati di Oliver Stone) pratica un’inversione radicale rispetto alla gran parte dei personaggi che ha interpretato, seguendo in questo un segreto percorso cinematografico comune a tante star di Hollywood. Tutto è reversibile, nulla e nessuno è condannato per sempre all’inferno-purgatorio dell’eterna palude. Quasi panteisticamente siamo un tutt’uno, un unicum, sembra dire il film nelle sue pieghe più nascoste (ancora la sequenza del cerbiatto che ha pure un’ambiguità: illusione o utopia?). Ma ci vuole una presa di coscienza per un riflusso in positivo. La parola riflusso – che dà il nome alla cittadina del titolo, Ebbing – non per nulla è stata usata negli anni ottanta per indicare lo spostamento regressivo verso il disimpegno e la superficialità dopo i decenni del secondo dopoguerra segnati da una tensione costante verso l’impegno e gli ideali progressisti. In questo caso è invece sinonimo di rinnovato movimento, di uscita da idee stagnanti diventate quasi fissazioni ossessive, causa di infelicità e di comportamenti spesso gravi quanto grotteschi. Anche qui il film, polivalente, lascia spazio a un’ambiguità giocata sui diversi significati della parola. Nel cuore del Midwest, il Missouri confina con otto stati e contiene i flussi di due grandi fiumi, il Missouri e il Mississippi. Uno stato che è una potenziale porta aperta che spinge a muoversi, viaggiare, conoscere e cambiare idee in tutte le direzioni, soprattutto quelle più inattese, come sembra dire il finale aperto. Andando infatti a cercare la zona adatta per le riprese e rappresentativa della palude, la produzione non l’ha trovata tra le Ozark mountains, dove è ambientato, ma, dopo un lungo giro tra Ohio, New Mexico, Missouri, Mississippi e Georgia, l’ha individuata nella cittadina di Sylva, in North Carolina. La sensibilità visiva è da grande cinema classico della New Hollywood degli anni settanta, per esempio di quello del grande e un po’ troppo dimenticato Arthur Penn. A cominciare da Missouri (1976), splendido western atipico con Marlon Brando e Jack Nicholson, paradigmatico di un cinema che rappresentava eroi disillusi, figli di un’epoca dove si perdevano gradualmente le illusioni negli ideali, ma sapeva farlo con umana malinconia.

Internazionale.it

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