Sulla riforma Franceschini sull’audiovisivo è sempre mutro contro muro con le tv italiane. A scrivere al ministro dei beni culturali Dario Franceschini sono, anche questa volta, tutti i principali broadcaster: Rai, Mediaset, Sky, Viacom, La7, Discovery, Fox. E anche questa volta la lettera esprime un secco «no» al decreto legislativo di modifica delle quote di investimento obbligatorio dei broadcaster in opere europee di produttori indipendenti. Anzi, quella che lunedì andrà in Consiglio dei ministri è una riforma «peggiorativa» e che «rischia di compromettere un sistema che in questi anni ha costruito valore per tutti gli operatori».
La quadra trovata dal Mibact sul decreto legislativo di modifica dell’articolo 44 del Tusmar è del tutto insufficiente agli occhi dei broadcaster. Che con questa lettera bocciano senza appello il testo uscito dal preconsiglio dei ministri di ieri. Un testo in cui, a quanto Il Sole 24 Ore ha potuto verificare, si è cercato un compromesso rispetto al testo precedente, agedo su quote e sanzioni. La bozza di decreto in esame una decina di giorni fa prevedeva che l’obbligo di investire in opere europee di produttori indipendenti sarebbe dovuto salire dal 10% attuale del fatturato al 15% nel 2018 e al 20% entro il 2019 per le tv commerciali, mentre per la Rai gli obblighi di investimento sarebbero dovuti passare dal 15% attuale al 20% nel 2018 per raddoppiare al 30% entro il 2019.
In questa nuova bozza di decreto il meccanismo delle quote è stato pensato per essere meno impegnativo. Risultato: nessun ritocco delle quote per tutto il 2018. Per la Rai la quota salirebbe poi dal 15% al 18% nel 2019 arrivando a un 20% nel 2020. Per le emittenti commerciali, ferma restando la moratoria per il 2018 che tiene ferme le quote, gli investimenti chiesti salgono dal 10% al 12,5% degli introiti netti annui nel 2019, per arrivare al 15% nel 2020.
Dunque un forte ridimensionamento delle quote di investimento a favore dei produttori indipendenti, che però non è bastato agli occhi dei broadcaster. Anche perché nel frattempo sono invece salite le sanzioni previste per gli inadempienti. Con questa versione del decreto vengono quantificate in una forbice da 100mila euro a 5 milioni (e fino al 3% del fatturato per le aziende televisive che fatturino oltre 5 milioni). Oggi la sanzione era di 258mila euro. Viene poi ripristinata la sottoquota in favore delle opere cinematografiche italiane (3,5% per salire al 4% nel 2019 e al 4,5% degli introiti netti nel 2020) che i broadcaster considerano un elemento discriminatorio rispetto a tutti gli altri generi televisivi, con aumento ritenuto sproporzionato rispetto alle attuali esigenze del mercato. Altro motivo di doglianza: una specifica quota di programmazione per il prime time (18- 23), considerara come un intervento drastico e inopportuno sulla libertà editoriale.
«Dalla Relazione – si legge nella lettera inviata al ministro Franceschini – emerge anche la mancanza di un’oggettiva analisi dell’impatto economico di tale riforma». Conclusione: la richiesta di fare marcia indietro sul decreto legislativo. «L’attuale impostazione del provvedimento avrà il solo effetto di danneggiare irreparabilmente l’intero comparto ma anche di discriminare fortemente una parte dei produttori a favore di altri, come del resto rilevato anche da alcune imprese del comparto e, infine, vanificare gli obiettivi che lo stesso Governo si propone per il rilancio del settore audiovisivo italiano riducendo il pluralismo delle linee editoriali che mai come oggi offre allo spettatore italiano qualità, intrattenimento e informazione».
Insomma, è muro contro muro. Che comunque, a quanto risulta, a differenza della lettera scritta 10 giorni fa non dovrebbe portare a un ulteriore rinvio. Il ministro Franceschini dovrebbe portare il testo, magari con qualche rivisitazione, nel consiglio dei ministri di lunedì. Poi, in caso di approvazione ci sarà comunque un passaggio in Consiglio di Stato e nelle commissioni parlamentari competenti.
Andrea Biondi, Il Sole 24 Ore