Greenaway: grazie al digitale ora i registi sono come i pittori

Greenaway: grazie al digitale ora i registi sono come i pittori

L’autore: «Tarantino invece esalta vecchie tecnologie ingombranti. Con i nuovi strumenti posso finalmente vedere «Apocalypse Now» dove e quando voglio

Riceverà un premio dedicato «ai grandi narratori che con le loro opere e la loro vita hanno lasciato un segno profondo nella storia contemporanea». «Riconoscimenti di questo tipo richiedono umiltà» commenta Peter Greenaway: al regista gallese il Biografilm Festival di Bologna conferirà il Celebration of Lives Award. «Samuel Beckett disse che se a 80 anni sei ancora in grado di far bollire un uovo ti danno una medaglia. Sono grato per questo premio che mi dà la possibilità di parlare di ciò che ho realizzato».
Sperimentale, visionario e provocatorio, Greenaway è uno spirito libero, un artista impossibile da ingabbiare in canoni di stile o genere tradizionali. Si definisce un «pittore su celluloide» e attualmente sta lavorando a un film sullo scultore Brancusi, Walking in Paris, che conta di presentare al prossimo Festival di Cannes. «A 26 anni lasciò la Romania per andare a Parigi, la città in cui ogni artista per definirsi tale doveva vivere. Non aveva fretta, fece il suo cammino a piedi: impiegò un anno e nove mesi… Protagonisti del film sono anche i paesaggi che fecero da sfondo al viaggio durante il quale usava materiali locali per creare sculture effimere: possiamo solo immaginare che grande scultore possa essere stato».
Quello di Greenaway è un cinema multimediale, espanso, impensabile senza il digitale. «Si pensa spesso che la tecnologia sia una scoperta degli ultimi cento anni, ma gli artisti l’hanno sempre usata. Pensi alle innovazioni pittoriche introdotte da Van Dyck, che usò il colore a olio al posto dell’affresco, cambiando per sempre il concetto di quello che la pittura era stata. Credo che molti grandi artisti del Rinascimento rimarrebbero sorpresi dal fatto che ancora oggi possiamo ammirare i loro dipinti. Leonardo superò i limiti dei suoi mezzi artistici sperimentando nuovi pigmenti che stratificava sugli affreschi. Sapeva che questo li avrebbe resi meno durevoli, come testimoniano le preoccupazioni dei curatori dell’Ultima cena di Milano, ma era disposto a correre il rischio pur di lavorare con una tecnologia nuova».
Lei ha detto: il cinema è morto. Perché continua a fare film? Ride: «L’ho detto, è vero, ma naturalmente la data di morte che ho citato, il 13 settembre 1983, indicava il periodo dal quale più o meno i film hanno cominciato ad allontanarsi dalla celluloide. E meno male. Con il digitale posso vedere subito cosa ho realizzato, il regista è finalmente paragonabile a un pittore. Nessuno deve più sviluppare il film e fartelo vedere il giorno dopo: tutto si svolge sotto i tuoi occhi, evviva. Alcuni registi, come Tarantino, hanno la tendenza a feticizzare tecnologie ingombranti, mi ricordano i fanatici dell’audio che affermano di poter ascoltare una registrazione di Beethoven solo quando sentono strusciare una puntina sul vinile. Per me lavorare con le tecnologie digitali è liberatorio. Come lo è il fatto di non doversi più per forza trovare in un luogo al buio, a una certa ora e con altra gente, per condividere un film in condizioni da altri controllate. Oggi possiamo vedere Apocalypse Now sullo smartphone o su altri device, in camera da letto, in studio o dove ci pare».
di Laura Zangarini, il Corriere della Sera

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