Margaret Mazzantini: “Mi annoia tutto, anche me stessa Scrivo per abitare le vite degli altri”

Margaret Mazzantini: “Mi annoia tutto, anche me stessa Scrivo per abitare le vite degli altri”

L’autrice racconta il suo “Fortunata” che sarà a Cannes diretto dal marito Sergio Castellitto

Esile nello scialle color arancio che, mentre parla, finisce per ricoprirla tutta, Margaret Mazzantini, spiega che, poi alla fine, tocca sempre a lei «ricostruire la tela». Con un filo lungo e resistente. Che mette insieme 30 anni di matrimonio riuscito con una carriera luminosa di scrittrice di best-seller. La dedizione totale all’opera che «deve essere pura, come se arrivasse dall’alto» con «il sugo, le camicie stirate, i consigli ai figli». Una «natura solitaria che avrebbe scelto una vita appartata» e la confusione creativa della sua famiglia: «Abbiamo lasciato i figli liberi di esprimersi, casa nostra è un circo Barnum». Di questo patchwork colorato e vitale fa parte Fortunata, il film scritto da Mazzantini, diretto da Sergio Castellitto, interpretato da Jasmine Trinca, nei cinema dal 20, e il 21 in vetrina al Festival di Cannes, nella sezione prestigiosa del Certain Regard: «E’ una favola amara di anime che si scontrano, una storia epica e psichica, piena di colpi di scena, con al centro una donna che unisce umiltà e spavalderia, raccontando la purezza di un proletariato che non esiste più. E poi ci sono i numeri, la fortuna e la sfortuna, il quartiere romano di Torpignattara. E’ un film struggente, di personaggi dimenticati».
Quelli che lei preferisce raccontare. Perché?
«Ho sempre scritto degli ultimi, forse perché nella miseria i contrasti sono più forti, forse perché mi identifico di più, sono cresciuta in periferia. E’ vero, Fortunata è un po’ figlia di Italia, la protagonista di Non ti muovere».
Quando si è saputo di Fortunata a Cannes, Castellitto l’ha ringraziata sottolineando che, oltre a essere l’autrice del soggetto del film, lei è sua moglie, la madre dei suoi figli. Un’architettura complessa. Come fate a tenerla in piedi?
«Ci vuole la buona salute, la capacità di gestire situazioni diverse, e anche i nervi. Sergio è un uomo formidabile, dolcissimo, tra noi c’è molto amore, e l’amore è quello che ti aiuta di più, perché sai di avere qualcuno che ti è davvero riconoscente. E poi siamo due nature generose. Certo, io, come donna, ho fatto molto, le donne fanno sempre infinite volte di più degli uomini. Ho tirato su i figli, cucino io, non ho mai preso le tate notturne. Vengo da una scuola dura, ho avuto un padre autoritario, sono una gran lavoratrice fin da piccola, e ho molta resistenza, anche se adesso sono un po’ stanca».
Che tipo di madre è?
«Una madre molto madre, metto sempre i figli prima del marito, anche troppo. Sergio si è adattato. Ogni volta che mi ha detto “partiamo, andiamocene via da soli per due giorni”, io avevo un figlio al collo, e non mi staccavo. Se io e Sergio litighiamo, è per i figli, perché io li difendo a oltranza. E poi adesso sono grandi, individui con cui confrontarsi continuamente. Con Pietro, il primo, che ha scritto due sceneggiature e vuole fare il regista, ci ritroviamo a discutere di film e filosofia fino alle tre di notte».
Come è cominciata la sua storia con Sergio Castellitto?
«Ci siamo incontrati allo Stabile di Genova, lavoravamo entrambi nelle “Tre sorelle” di Cechov. E infatti Genova è la nostra città del cuore. Poi ho seguito Sergio a Parigi, doveva fare una serie con Delon, ho rinunciato a una scrittura teatrale, e ho iniziato a scrivere. Avevo debuttato in palcoscenico giovanissima, ma sentivo che dentro di me c‘era qualcosa di censurato».
Mai stata gelosa?
«Non si può essere gelosi di un uomo che ti chiama dieci volte al giorno. Ci siamo sempre fidati, nella massima libertà, ci teniamo per mano, ci facciamo una carezza. Siamo due nature schiette».
Scrivere una giornata intera e poi mettersi a preparare la cena per tutta la famiglia. E’ difficile?
«Il mio lavoro rasenta la follia, scrivo come in trance, e i figli, invece, riportano alla normalità, alle cose concrete, se non sono una fuori dal tempo, è grazie a loro. Negli ultimi anni, aiutando Sergio e continuando ad accudire i ragazzi, sicuramente ho rinunciato a delle cose. Alla base della famiglia, si sa, c’è il sacrificio e io ho sempre anteposto loro. Per gli uomini la realizzazione professionale è fondamentale, per me non è così, vengono sempre prima la vita e i rapporti umani».
La passione di scrivere da dove viene?
«Forse c’entrano i miei, il fatto che sono nata Dublino, l’Irlanda è una terra di scrittori, piena di echi letterari, e gli irlandesi sono tenaci, si dice che siano i napoletani del Nord. Ho un’indole spirituale, e il mio è un mestiere di clausura, sono capace di distacco, ma guardando dal basso, come una serva, mai dall’alto».
E la spinta di fondo, la radice dell’ispirazione?
«Mi annoio molto facilmente, anche di me stessa. Ho pensato che forse scrivo per abitare le vite degli altri. Il mio è un lavoro meraviglioso, ti fa essere come un bambino che costruisce castelli di sabbia».
Ogni scrittore ha le proprie usanze. Le sue quali sono?
«La mattina faccio la spesa e, quando posso, scrivo tutto il giorno. La letteratura ti consente di isolarti, sei come un radar, catturi ogni cosa, poi ti togli dal mondo, ti chiudi in una stanza, e restituisci quello che hai captato. Scrivere è una maratona. Un artista vive con i sensi spalancati, è come un sismologo».
Adesso va al Festival di Cannes. E dopo?
«Con Sergio stiamo scrivendo una serie tv. E poi ho cominciato il mio nuovo romanzo, sono a buon punto. La scrittura è un viaggio che richiede un tempo bianco, spero di riuscire ad averlo di nuovo, come quando Sergio partiva per fare l’attore e io restavo sola».
C’è qualcosa che le fa paura?
«L’unica cosa che mi può terrorizzare è la sofferenza degli altri. E poi l’ansia per i figli. Mi sembra che questi siano tempi di bassa marea, noi abbiamo vissuto anni migliori, eravamo più rilassati. Oggi è tutto meno bello di prima, si tende a sgomitare, a essere avidi, strategici. E’ un mondo rapace. E questo mi terrorizza».

di Fulvio Caprara, La Stampa

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