Nelle sale il 25 maggio il film di Ivan Silvestrini con Matilde Gioli, ambientato in una notte romana, ma sono tanti i registi che hanno scelto uno spazio temporale di poche ore “dall’alba al tramonto” per raccontare la loro storia. Ne abbiamo scelti dieci
Il genere non conta. Possono essere horror, thriller, commedie, drammi, film romantici, ciò che conta è che il racconto si dipani in poche ore quelle che separano “il tramonto dall’alba”, i protagonisti stretti nell’abbraccio della notte dove tutto appare sotto un’altra ottica. Mentre sta per arrivare in sala 2night, il film di Ivan Silvestrini con Matilde Gioli e Matteo Martari, abbiamo ripercorso la storia del cinema alla ricerca di dieci volte in cui un regista ha scelto di raccontare “tutto in una notte”.
Tutto in una notte di John Landis. Tecnicamente non corrisponde esattamente al genere perché il film di John Landis (a dispetto della traduzione italiana del titolo Into the night) racconta, per poche brevi sequenze, anche il giorno che precede la notte folle (in realtà sono due) di Ed Okin (Jeff Goldlum), ingegnere aerospaziale che soffre di insonnia, la cui moglie lo tradisce e che ha perso tutta la voglia di vivere. Almeno finché incontra la bellissima Diana “come la principessa” (Michelle Pfeiffer) che lo trascinerà suo malgrado in una folle corsa attraverso Los Angeles con una banda di quattro scagnozzi iraniani (lo stesso regista è uno dei quattro) e altri misteriosi killer alle calcagna. Il film di Landis, che aveva già diretto The Blues Brothers e Un lupo americano mannaro a Londra, venne frainteso dal pubblico: gli studios lo “vendettero” come commedia gialla, ma in realtà c’era poco da ridere nella storia di questo uomo spezzato. Che aveva molto in comune con il regista in un momento molto delicato della sua vita e carriera, visto che stava ancora gestendo le conseguenze della morte di tre persone sul set di Ai confini della realtà, a causa di un elicottero che aveva perso il controllo per le di forti esplosioni sul set abbattendosi su un attore e due giovani comparse.
La 25a ora di Spike Lee. La notte di Monty Brogan (Edward Norton), condannato a sette anni per spaccio di droga e in procinto di entrare in galera, è una notte arrabbiata e melanconica che è una dichiarazione d’amore di Spike Lee per New York (che il regista sceglie di ritrarre nella sua ferita più dolorosa, il Ground Zero sventrato). In questa notte di libertà Brogan vaga per il suo quartiere in compagnia dei suoi due più cari amici e della sua ragazza riconsiderando la sua vita fino a quel giorno. Anche in quel monologo iniziale, così pieno di livore (“In culo ai mendicanti che mi chiedono soldi e che mi ridono alle spalle; in culo ai lavavetri che mi sporcano il vetro pulito della macchina; in culo ai sikh e ai pakistani che vanno per le strade a palla con i loro taxi decrepiti, puzzano di curry da tutti i pori, mi mandano in paranoia le narici, aspiranti terroristi… e rallentate, cazzo…”), in realtà oltre alla presa di coscienza finale (“in culo a te, Montgomery Brogan, avevi tutto e l’hai buttato via, brutta testa di cazzo!”) c’è tutta la consepevolezza e la nostalgia per gli ultimi scampoli di libertà .
I guerrieri della notte di Walter Hill. E per rimanere in città c’è la notte folle e senza freni delle bande di New York, dopo che nel Bronx il capo della più importante gang viene assassinato dal fanatico capo dei Rogues, facendo però ricadere la colpa sui Warriors, banda poco nota di Coney Island. Comincia la caccia che è un vagare attraverso la metropoli, braccati da altre quattro gang e dalla polizia che fa da arbitro, affrontando scontri, agguati, trabocchetti, duelli. Fino al confronto finale, quello sulla spiaggia di Coney Island: il mare sullo sfondo, la calda voce della deejay radiofonica e le note di In the city di Joe Walsh. “Inizialmente volevo farlo con un cast tutto composto da neri, ma lo Studio me lo impedì – ricorda il regista nella lunga intervista con Giulia D’Agnolo Vallan in occasione della retrospettiva al Torino film festival – La cosa all’epoca mi fece andare su tutte le furie; a posteriori, in effetti credo che questo cast così inspiegabilmente variegato, preso “un po’ qua e un po’ là, sia servito a sottolineare ulteriormente la dimensione fumettistica”.
Notte folle a Manhattan di Shawn Levy. È sempre New York, ma è tutt’altra atmosfera quella di Notte folle a Manhattan, commedia di un regista che di notti se ne intende (visto che ne ha filmate tre dentro i vari musei del mondo da quello di Scienze Naturali a New York al British Museum di Londra). Protagonisti sono i comici del Saturday Night Live Steve Carell e Tina Fey, nei panni di Phil e Clara Foster: sposati, due figli, una bella coppia ma un po’ stanca che si “obbliga” ad uscire per ritrovare le scintille di un tempo. Complice il furto di una prenotazione per un tavolo in un ristorante chic di Manhattan, la loro serata tranquilla si trasformerà in una rocambolesca avventura ai limiti della sopravvivenza in cui la loro relazione troverà nuova linfa. Merita una menzione l’interpretazione di James Franco nei panni del tatuatissimo Mr. Tripplehorn e di Mark Wahlberg in quelli di un muscoloso esperto di sicurezza.
La notte dei morti viventi di George Romero. Un film culto, tra i capolavori del cinema horror, l’esordio folgorante di George Romero è ancora, quasi cinquant’anni dopo, un film che terrorizza e fa pensare. La notte di resistenza ai morti risorgenti nella campagna della Pennsylvania è una notte da incubo che non avrà sopravvissutti. “Solo dopo La notte dei morti viventi, capii come quella degli zombi potesse essere una metafora potente, e importante – ha detto Romero ricordando quel suo primo film – Se non li si considera mostri, ma una rappresentazione di quel che noi uomini siamo diventati, ecco allora che il genere dei morti viventi acquista un’altra dimensione”, una dimensione politica. Soprattutto dopo che, proprio mentre Romero portava a New York la prima copia stampata del film, alla radio annunciarono la morte di Martin Luther King.
American Graffiti di George Lucas. In una cittadina della California, la piccola Modesto dove il regista è nato, alla fine dell’estate del ’62, si ritrovano al tramonto quattro amici, ex compagni di scuola in procinto di andare a studiare nella costa Est, è la loro ultima serata prima del grande salto, prima di diventare adulti. Si ritrovano nel parcheggio del drive-in locale e trascorrono la loro ultima serata tra gare in macchina, ragazzine da tampinare e fughe dalla polizia. Per Lucas fu il secondo film, il cui successo lo traghettò verso i grandi budget e la saga di Guerre stellari. Un’operazione nostalgia che ha funzionato perché era sincera, era la nostalgia dello stesso Lucas che nell’estate del ’62 vedeva sfumare i suoi sogni di diventare pilota di auto da corsa dopo un incidente che gli causò danni ai polmoni. Quel pilota mancato divenne, grazie all’incontro con il cinema, il regista da culto che conosciamo e American Graffiti e la sua notte brava traghettò Ron Howard verso il successo di Happy Days.
Dal tramonto all’alba di Robert Rodriguez. Da una vecchia sceneggiatura di Quentin Tarantino (iniziata ai tempi del liceo), il suo amico messicano Robert Rodriguez ha tratto un film a metà tra horror e parodia del genere. È la storia di due fratelli Seth (interpretato da George Clooney) e Richard (Quentin Tarantino) che, dopo aver derubato una banca in Texas, prendono in ostaggio un predicatore ormai disilluso che viaggia in camper con due figli e sconfinano nel Messico dove approdano al locale Titty Twister, frequentato da spogliarelliste eccitate e da un’orda di vampiri aggressivi. Un divertissement senza regole e assolutamente sopra le righe che venne massacrato dalla censura (scene tagliate, il sangue dei vampiri colorato di verde, le ballerine nude rivestite in digitale) sia negli Stati Uniti che in Europa (in Italia uscì tre anni dopo con il divieto ai 18 anni). Ciò nonostante è diventato un film culto sia per le doti di regia di Rodriguez che per la strana coppia Tarantino-Clooney.
Prima dell’alba di Richard Linklater. Un film generazionale che ha dato il via ad una trilogia (a distanza di tanti anni): Before Sunset – Prima del tramonto del 2004 e Before Midnight del 2013, sempre con protagonisti Julie Delpy e Ethan Hawke. Nel 1995 i due hanno poco più di vent’anni, Jesse americano e Celine francese, si conoscono su un treno diretto a Vienna. Nella città austriaca passeranno insieme una notte tra sogni e progetti, visione della vita e del mondo, tra un’attrazione forte e la consapevolezza che il mattino dopo sarà tutto finito. Oppure no. Linklater scrisse la sceneggiatura, in coppia con Kim Krizan, in 11 giorni ispirandosi ad una sua esperienza personale, nel 1989 aveva conosciuto una donna in un negozio di giocattoli di Philadelphia e con lei aveva trascorso tutto un giorno e buona parte della notte girando la città e chiacchierando. Un film per inguaribili romantici, che oggi mostra il suo tempo.
Chi ha paura di Virginia Woolf? di Mike Nichols. Il film da cinque premi Oscar, tratto dalla pièce teatrale di Edward Albee, è un’immersione disturbante nella vita di una coppia inacidita e litigiosa interpretata dalla coppia più violenta e tormentata della storia del cinema, Elizabeth Taylor e Richard Burton. Ritornati a casa insieme a due amici da un party in campagna, nel New England, la coppia comincia a rinfacciarsi tutte le cattiverie e le promesse mancate di tanti anni di matrimonio di fronte agli altri due sbigottiti per la violenza del loro litigio. Elizabeth Taylor prese più di tredici chili per interpretare l’alcolizzata e depressa Martha, ma fu ricompensata con uno dei due Oscar (oltre quello per il suo impegno umanitario) della sua carriera. Il film vanta anche il record, insieme a I pionieri del West del 1931, di essere stato candidato in tutte le categorie possibili.
Fuori orario di Martin Scorsese. Fuori orario, in originale After hours (ovvero “dopolavoro”) è un film che Martin Scorsese avrebbe dovuto solo produrre e invece scelse di dirigere perché si era innamorato dellaa sceneggiatura di uno studente della Columbia che poi lui aveva rimaneggiato. Racconta le peripezie, surreali, tragicomiche di un programmatore informatico (Griffin Dunne) che finito il lavoro vorrebbe bere un bicchiere e tornare a casa, ma che non riuscirà a portare a compimento il suo progetto per una serie infinita di incontri, disguidi, coincidenze, incidenti che gli fanno incontrare i personaggi più diversi: una barista, una scultrice, una coppia di ladri fino a una folla inferocita. La notte a Soho, ancora New York, è raccontata attraverso i mille angoli in cui il protagonista finisce per capitare. Il regista dovette accontentarsi di un basso budget (era reduce anche dal flop di Re per una notte) ma non rinunciò a girare il film interamente di notte.
di Chiara Ugolini, La Repubblica