Negli ultimi dieci giorni, Francesco De Gregori ha compiuto 66 anni, è stato ospite in tv ad Amici, e ha accettato di raccontarci il suo 2017. «Parlare di me mi diverte sempre», dice alla fine dell’intervista, con quella sottile autoironia che spesso – ingiustamente – non gli viene riconosciuta.
Ad «Amici» ha proposto «Rimmel» e «Questi posti davanti al mare», una canzone di Ivano Fossati che lei cantò con Fossati stesso e Fabrizio De André.
«Mi hanno chiesto di fare qualcosa con i ragazzi. Volevo un pezzo d’autore ma non mio. Ha funzionato, nel tessuto di un programma che comunque ha una sua nobiltà è entrato qualcosa di diverso».
Le piace avere una funzione didattica?
«No, questo no. Non ho mai preso una lezione di canto, o di chitarra, imparo ascoltando gli altri. Ad Amici c’è stato un dibattito sull’intonazione e io ho detto che stonare non è importante, un cantante si misura da come si fa capire. Ecco, in quel senso lì ho fatto un po’ il professore, però negando l’aspetto tecnico come pilastro centrale nel cantare una canzone».
«Rimmel», 42 anni dopo…
«La reinterpreto senza stravolgerla. Non che quella del ’75 non mi piaccia, è che non sono più capace di farla in quel modo. La freschezza, l’ingenuità nella costruzione dell’arrangiamento, nel canto, quella voce esile, eterea oggi non ci sono più. Però, come dicevo ai ragazzi di Amici, l’importante è far sentire le parole: credo che anche in questa nuova versione si capisca cosa voglio dire».
È una versione dal vivo. E lei ha fatto moltissimi dischi dal vivo.
«Credo siano 17, contro 24 o 25 in studio. È che sono un performer, uno che sta sulla scena, sul palco. Questo è il motivo per cui faccio da tanti anni questo mestiere».
Mai avuto un rifiuto del palcoscenico?
«La gioia, il divertimento narcisista che provo nello stare davanti alla gente hanno sempre battuto l’inevitabile tensione. Quando ho cominciato a fare serate, da solo con la chitarra, prima di Rimmel, suonavo nelle discoteche dell’Adriatico, posti così. Lì ogni tanto c’era chi voleva ballare e io stavo sul palco per tre quarti d’ora a cantare Alice. Da lì in poi è andato sempre meglio».
Lei nasce dal vivo?
«Nasco sul palco. Per anni sono andato al Folk Studio o in locali simili di Roma senza che l’idea di fare un disco neppure mi sfiorasse».
Oggi i ragazzi vanno ad «Amici».
«Hanno altre possibilità, quelle che gli consegna il nostro tempo. Hanno i talent o la Rete, la possibilità di fare un video in cameretta e di diffonderlo al mondo. Non direi mai che era meglio allora o adesso. Se hai la spinta di scrivere canzoni e di fare il cantante va bene tutto».
Oggi il giovane De Gregori farebbe un video su YouTube?
«Magari ci fosse stato YouTube ai miei tempi. L’avrei fatto, l’avremmo fatto tutti».
Oggi è più difficile venire fuori?
«Sì, c’è più concorrenza. Moltissimi ragazzi oggi sognano di fare questo mestiere. Allora era una stranezza».
Chi le ha messo in testa di fare questo strano mestiere?
«Due persone. Per primo, Fabrizio De André, scoperto sui banchi del liceo. Cercavo di imitarlo in tutto. Anche esteticamente. Aveva questi capelli che gli scendevano di lato, mi piaceva da morire. Una volta andai dal barbiere con una sua foto per avere un taglio uguale, e lui: non posso, non hai i capelli lisci. Ci rimasi malissimo».
E il secondo?
«Bob Dylan, in maniera più globale, pervasiva, perché è arrivato qualche anno dopo, quando ero più grande. Dylan era il mito americano, il rock, il folk, una figura lunare, collegata a quel mondo che conoscevo dai libri, la Beat Generation. Queste canzoni meravigliose, con quel suono… È il Dylan elettrico che mi ha rovinato, quello di Like a Rolling Stone. Avevo 16, 17 anni, come fai a sfuggire a un imprinting così poderoso?».
Un debito pagato lo scorso anno, con l’album «Amore e furto», undici canzoni di Dylan tradotte in italiano.
«Non sono un esegeta, uno studioso di Dylan, ma la passione mi ha fatto credere di poter entrare nel suo mondo. Di poterlo reincarnare».
Dylan è più studiato che amato.
«Ogni tanto l’eccesso di spiegazioni colpisce anche me, c’è chi analizza ogni singolo verso. Ma il singolo verso non vuol dire mai niente, la canzone, come la letteratura, vive di ambiguità. Se venisse Melville e volesse spiegarmi Moby Dick, lo caccerei via. Voglio continuare a leggere il libro e a interrogarmi».
La canzone è letteratura, come sembrerebbe dire anche il Nobel a Bob Dylan?
«Sì. Il concetto di letteratura è cambiato, oggi comprende il cinema, per esempio, il teatro, la canzone, l’insieme di parole e musica. È la canzone che è letteratura, non il testo della canzone. Come dico sempre, senza musica il testo della Donna cannone non è poesia. Anzi, non sta in piedi».
Che cosa sta facendo ora?
«Sono in pausa da tutto, leggo, guardo la tv, mi occupo del campionato di calcio… Ma casa mia è piena di chitarre, c’è un pianoforte, e ogni tanto vado a vedere che succede. Prendo appunti sul telefonino: è la fase preliminare, prelude alla scrittura più meditata, strutturata. Non ho nemmeno mezza canzone da parte. Mi piacerebbe che nel 2018 uscisse un mio disco, però non ne ho assoluta certezza. Lavorerò perché questo accada».
Ascolta musica?
«Sì, su YouTube, alla radio. E molte cose mi piacciono, anche inattese: Comunisti col Rolex di Fedez e J-Ax è una bella canzone. Ci sono molte belle voci. Mi piacciono certi pezzi pop, Tiziano Ferro… E poi Dylan, sto ascoltando molto il suo Triplicate, un monumento alla canzone americana».
I ragazzi oggi la citano tra i maestri, con Dalla, Battiato, alcuni anche Venditti…
«Siamo i vecchietti, un po’ ci prendono per il culo, un po’ ci riconoscono un peso nella musica italiana. E io voglio averlo ancora, mi sento contemporaneo, non uno che avendo scritto Rimmel nel 1975, La donna cannone nell’82/83, sta seduto su quelle canzoni e viene adorato in virtù di quello che ha fatto. Mi sento uno che fa concerti e scrive canzoni oggi. È questo che mi rende allegro».
Pietro Negri, il Secolo XIX