Lisa Nishimura, a capo della squadra che si occupa dei contenuti originali di Netflix per i documentari e le commedie, racconta la strategia del servizio di streaming e smentisce un luogo comune: «Non guardiamo solo gli algoritmi»
Se siete fra coloro che hanno divorato Making A Murderer o che si sono appassionati alle creazioni culinarie di Chef’s Table, dovete ringraziare Lisa Nishimura, Vice President Original Documentary and Comedy Programming di Netflix. «Sono a capo della squadra che si occupa dei contenuti originali di Netflix per i documentari e le commedie. Oltre a comprare i diritti di contenuti prodotti da altri, decidiamo quali documentari produrremo e distribuiremo in esclusiva sulla nostra piattaforma», racconta da Perugia, dove è ospite al Festival del Giornalismo per presentare una delle sue ultime acquisizioni, Nobody Speak – Hulk Hogan, Gawker and Trials of a Free Press del regista Brian Knappenberger.
Il documentario racconta la vicenda di Hulk Hogan, che ha messo in ginocchio Gawker Media, costretto a pagare un risarcimento milionario per aver diffuso un video dell’ex wrestler che faceva sesso con la moglie di un suo amico. «L’ho scelto perché affronta un tema molto attuale: la libertà di stampa», spiega la Nishimura.
Qual è la sua strategia?
«Cerchiamo storie nuove e uniche. E vogliamo che raggiungano un livello qualitativo più alto. Per esempio, grazie ai dati raccolti e agli algoritmi, sapevamo che i nostri utenti in tutto il mondo amavano il cibo, ma è un tema che ha mille sfumature e volevamo qualcosa che non era mai stato fatto prima. È nato così Chef’s Table, abbiamo scelto David Gelb perché aveva realizzato Jiro Dreams of Sushi, un documentario poetico e cinematografico sulla passione dell’uomo per la perfezione».
Come funziona l’algoritmo di Netflix?
«Rende diverso il profilo di ogni utente, dipende dalle sue passioni e si aggiorna di continuo in base a cosa guardiamo: è così che Netflix guadagna la fiducia del pubblico. L’altra cosa interessante è che l’algoritmo non ci dà informazioni demografiche tradizionali. Si basa solo su cosa guardano gli utenti. Potrebbe esserci una donna di 75 anni in Giappone che ha gli stessi gusti di un ragazzino di 15 anni in Italia, ma a noi non interessa, perché non dipendiamo dalla pubblicità come la televisione».
I detrattori di Netflix dicono che si basa solo sugli algoritmi, è vero?
«Sono felice che me lo chieda perché non è così: l’algoritmo è il punto di partenza, ma è solo una variabile quando si tratta di decidere cosa realizzeremo. I dati ci dicono quale categoria interessa agli utenti, come il cibo, la politica o l’ambiente, ma il valore dei nostri prodotti sta nel modo in cui li realizziamo e raccontiamo la storia. Il modello di Netflix ci dà la flessibilità per farlo nel modo migliore».
Che cosa intende?
«Le autrici di Making a Murderer, per esempio, stavano lavorando al progetto da 10 anni, ma non riuscivano a trovare un produttore perché tutti volevano farne un lungometraggio. Loro invece avevano bisogno di più tempo: con noi hanno potuto fare una serie di dieci episodi. Mentre, per White Helmets (che ha vinto l’Oscar al miglior corto documentario, ndr), il tema della Siria era così urgente che doveva essere realizzato in poco tempo, per questo abbiamo deciso di farne un corto».
Qual è il vostro documentario più visto?
«Non diffondiamo queste informazioni. Ma i casi giudiziari hanno molto successo, come Making a Murderer e Amanda Knox, anche Chef’s Table. Abbiamo imparato che, quando agli abbonati viene presentata la scelta, amano i documentari: il 75% di loro li guarda».
I documentari sono molto popolari ultimamente. Secondo lei perché?
«Penso che Netflix abbia portato due rivoluzioni. La prima è che i contenuti diventano disponibili in tutto il mondo nello stesso momento: questo dà la possibilità di promuovere il prodotto e aprire un dialogo culturale a livello globale. In passato, un documentario poteva essere distribuito in due mercati diversi anche a distanza di anni. L’altra novità è che il consumatore ha la scelta. Nel modello tradizionale, i film escono al cinema il venerdì, ma chi esce quella sera non rappresenta l’intero pubblico. Noi invece diamo la possibilità di guardarlo quando e come si vuole. I documentari meritavano una piattaforma perpetua e globale dove poter essere apprezzati: noi gliel’abbiamo data».
Margherita Corsi, Vanity FAir