Il divo, protagonista di ‘The Dinner’ in concorso, attacca il Presidente americano all’indomani dell’incontro con Angela Merkel. Nel film è un padre che deve decidere se denunciare il figlio adolescente che ha commesso un crimine
Con la sua voce calma e l’espressione ascetica Richard Gere lancia dal palco della Berlinale una devastante bordata a Donald Trump: “La cosa più orribile che ha fatto è stato associare queste due parole: rifugiato e terrorista. Questo è ciò che ha fatto, cambiato il linguaggio. Invece di pensare al rifugiato come a qualcuno che fugge da qualcosa e che noi vogliamo accogliere e aiutare, ora abbiamo paura di loro. Il più grande dei crimini è stato far coincidere queste due idee. Dobbiamo avere ben chiaro quello che lui e il partito conservatore hanno fatto”.
Queste stesse parole il divo le aveva pronunciate poco prima all’incontro faccia a faccia, all’Hotel Regent, perché questo era evidentemente il messaggio che voleva consegnare al festival di quest’anno, nel quale già al secondo giorno si capisce peserà l’ombra del neopresidente statunitense.
Al di là dei proclami, anche nel cinema selezionato qui si parla di molto di politica: ieri Django con la persecuzione dei gitani nella Seconda guerra mondiale, oggi con The dinner, il film in concorso dell’americano Oren Moverman. Entrambi film i cui nobili intenti e la ricerca di spessore finiscono per diminuire l’impatto emotivo, il coinvolgimento. E questo malgrado le ottime prove degli interpreti. The Dinner è tratto dal bestseller dell’olandese Herman Koch. Si tratta della terza volta che il libro pubblicato, nel 2013, arriva la cinema: prima c’è stata la versione olandese, The dinner, nel 2013 di Menno Meyjes, l’anno dopo Ivano De Matteo ha portato a Venezia la versione italiana, I nostri ragazzi, con Giovanna Mezzogiorno, Alessandro Gassmann e Luigi Lo Cascio. L’assunto della storia è semplice e fortissimo: come reagiremmo se un nostro figlio adolescente commettesse un crimine? Fino a dove saremmo pronti a spingerci per proteggerlo e qual è la scelta giusta da fare? Partendo da questo nucleo centrale universale, ciascuno dei tre registi ha declinato la storia immergendole nelle dinamiche sociali e famigliari del proprio paese (e consegnando ciascuno un finale diverso). Overman sposta l’ambientazione negli Stati Uniti e la lega alla guerra di Secessione, capitolo dolorosissimo della storia americana.
Metti una sera a cena. The dinner è una sorta di Carnage al ristorante: un massacro di parole e sentimenti tra due coppie, consumato in un elegantissimo ristorante pieno di portate e cibi raffinati “preceduti da spiegazioni lunghissime, mentre a mangiarli ci si mette pochissimo”, scherza Moverman, che struttura il film come un menù, dall’aperitivo al digestivo. A tavola siedono il deputato Richard Gere, in corsa come governatore, all’apparenza il tipico politico sempre al telefono, fissato con le donne, accompagnato dalla moglie giovane Rebecca Hall che sbuffa, il fratello minore Steve Coogan, un professore di storia che ha avuto un esaurimento nervoso e la di lui consorte Laura Linney, materna, rassicurante quanto ferrea. Presto ci si rende conto che c’è un motivo preciso per cui il politico ha invitato gli altri: i cugini sedicenni, figli delle due coppie, hanno commesso un crimine che ha sconvolto il paese: hanno arso viva una senzatetto che dormiva in una cabina telefonica, filmandone la morte in un video che finisce in rete. I ragazzi non sono identificabili e ai genitori spetta la decisione su come reagire. Le posizioni dei quattro sono diverse e conflittuali, e lo scontro rivela, per dirla alla Moverman, “la realtà selvaggia che si nasconde dietro la superficie delle vite borghesi”.
l peccato originale americano. Moverman: “Ho iniziato ad adattare il libro per un film che doveva girare Cate Blanchett, poi sono stato coinvolto su questo tema così forte: come reagisci se tuo figlio commette un crimine? Un assunto universale che si adatta a ogni cultura. Ho visto il film olandese, non quello italiano anche se qualcuno mi ha detto che era buono. La mia sfida era adattarla agli Stati Uniti, anche perché tocca temi scottanti nel mio paese: il razzismo, il privilegio dei bianchi, la Guerra Civile come peccato originale della nostra cultura. E la malattia mentale, una questione forte nel mio paese e che spesso vediamo sfociare nel crimine, nell’uso delle armi. Mi è sembrato naturale inglobare tutto questo nel film”. Un film che sembra disegnato per l’oggi, anche se è stato scritto due anni fa. “Siamo in pieno a un fenomeno che pomposamente chiamano post-tribalismo, la nostra società è divisa in gruppi chiusi che si curano solo di se stessi e sono indifferenti e sospettosi verso chi non ne fa parte, chi è diverso. Qualcosa che è molto popolare nei media oggi. E che attrae quella middle class che oggi è in grande difficoltà in una società che si sta polarizzando. C’è una guerra civile che ha partorito questa sorta di alleanza tra gli ultimi che si affidano a un super ricco che non è strutturato per fare i loro interessi. È un peccato”.
Gere versus Trump. Che farebbe Richard Gere, padre nella realtà di un adolescente, di fronte alla situazione raccontata nel film? Il divo, così esplicito sulla sua posizione politica, sceglie di non rispondere direttamente alla domanda. Preferisce buttarla sul film “penso che il mio personaggio rispetto al senso di protezione che anima tutti e quattro i genitori, abbia una visione più ampia sul fatto che ciascuno di noi è responsabile delle azioni che compie e pretendere che non lo sia è insano, sciocco, controproducente e alla fine si ritorce contro di noi”. Rispetto alla parte legata alla guerra civile americana e alla battaglia di Gettysburg, Pennsylvania, vinta dai nordisti ma che ha lasciato sul campo 50mila soldati (una parte molto poetica ma che finisce per appesantire l’architettura thriller della storia che il film recupera nel finale) Gere spiega: “Per voi europei è difficile capire quanto quel conflitto sia radicato nella nostra cultura. E che è vivo anche oggi nell’era Trump: East Cost e West Coast contro il resto d’America. Purtroppo lui ha stimolato questa divisione aggressiva tra due tipi di pensiero. Quando Trump dice “l’America viene prima”, intende “io vengo prima”, “i bianchi americani vengono prima”. E questo in un mondo in cui invece gli esseri umani dovrebbero prima di tutto comunicare, amarsi, prendersi cura gli uni degli altri”.
di Arianna Finos, La Repubblica