Garfield è uno dei volti più eclettici di Hollywood: dopo l’uomo ragno è diventato gesuita per Scorsese in Silence e ora pacifista in Hacksaw Ridge di Gibson: “Desmond è uno di quei ruoli che puoi rincorrere per tutta la vita. Una vera fonte d’ispirazione”
ANDREW Garfield è il volto mistico di Hollywood. Allampanato, con un indomabile ciuffo di capelli neri e limpidi occhi color nocciola, l’attore 33enne ha costruito con passione e integrità una carriera solida e inusuale, spaziando dal teatro (nominato ai Tony Awards per Morte di un commesso viaggiatore), il cinema d’autore ( 99 homes, The social network), non disdegnando una parentesi nei grandi incassi con The amazing Spider- Man. Garfield è stato la scelta naturale per due ruoli iconici nei film Silence di Martin Scorsese, che lo ha voluto come il tormentato Padre Rodriguez e in La battaglia di Hacksaw Ridge, in cui Mel Gibson lo ha arruolato nella Seconda Guerra mondiale. Il film racconta la storia vera di Desmond Ross, pacifista che vuole andare al fronte come soccorritore, viene punito perché rifiuta di usare le armi, ma a Okinawa salverà la vita a una settantina di compagni, guadagnandosi la Medaglia d’Onore. Per questo ruolo l’attore è candidato all’Oscar da protagonista. Il viaggio di Hacksaw Ridge, in sala domani, è partito dall’Italia, dall’ultima Mostra di Venezia: “Non potevo pensare a un avvio migliore. Del resto avevo ottimi ricordi anche da quando ero stato al Lido con 99 homes, un film importante che ha segnato una svolta importante nella mia consapevolezza d’attore”.
Quella di Desmond Ross è una storia veramente straordinaria.
“È vero, quel genere di storie che non arrivano mai sotto forma di sceneggiatura. Sono biografie, romanzi. La figura di Desmond, antieroe che certo non lotta per una medaglia, è stata fonte d’ispirazione grande, così come entrare nella sua pelle un privilegio emozionante. Uno di quei ruoli che un attore rincorre per tutta la vita. Conta l’esperienza stessa: quello che arriva dopo è tutto in più. È stato appagante entrare in quella grandezza che poggia sulla profonda, rara umiltà di Desmond”.
Ci sono religioni che predicano l’intolleranza. Desmond salva anche la vita dei nemici.
“La mia scena preferita è quando lui si trova faccia a faccia con un soldato giapponese, sotto i tunnel. C’è un attimo in cui pensa “Mi ucciderà?”, ma poi non esita nel suo istinto di aiutarlo, alleviarne la pena. In quel momento c’è l’essenza del film. La spiritualità di Desmond trascende la singola religione. Sì, è un cristiano Avventista del settimo giorno, ha un modo specifico di vivere la sua vita e la sua fede, ma riesce a diventare l’incarnazione stessa dell’amore per il prossimo a prescindere da credo, razza, colore della pelle. Aiuta chi potrebbe ucciderlo. Può essere considerato insano in un sistema di valori come quello della società di oggi e forse in ogni altra. Perché è un uomo che trascende i suoi tempi, si riconosce nella forza della fratellanza, in una comune umanità”.
Qual è il suo rapporto con la fede?
“Mio padre è ebreo: mai osservante, poi diventato ateo. Mia madre segue un panteismo tutto suo. Io sono stato di tutto un po’: ebreo, ateo, agnostico, panteista, confuso. Mi sento sempre alla ricerca di qualcosa e sì, condivido il senso d’appartenenza all’umanità che era quello di Desmond”.
Tre anni spesi al servizio di due autori come Scorsese e Gibson, come l’hanno cambiata?
“Prima ho girato il film con Mel. La sua è una forma di fede piena di energia, passione, senza filtri. Credo moltissimo nel suo film. Il lavoro con Martin è stato analisi, riflessione. Abbiamo studiato e discusso il testo di Shusaku Endu. Poi mi ha affidato al gesuita newyorchese padre Martin, con cui abbiamo fatto trenta giorni di ritiro seguendo il percorso indicato da Ignazio di Loyola”.
Dei cinque anni trascorsi con la tuta dell’Uomo Ragno cosa resta?
“Recitare è anche gioco. Lo so perché facevo il buffone fin da ragazzino, mia nonna mi prendeva in giro dicendo che avrei fatto il pagliaccio da grande e per me era un complimento. Il problema con Spider-Man non era il ruolo visto che è il mio supereroe preferito, ma quel tipo di celebrità del tutto svincolata dal valore professionale. Sono stato a disagio. Mi portava in luoghi dove non volevo andare. Sento di voler combattere questa religione del successo, dei soldi. Confesso, gli ultimi tre anni con Gibson e Scorsese sono stati così intensi che potrei anche ritirarmi per un po’…”.
La Repubblica