Amma Asante regista di «A United Kingdom»: il mio film sul Botswana contro tutti i razzismi. I miei genitori erano del Ghana, fiera di essere un’inglese figlia dell’Africa»
Si incontrarono a un ballo. E ballarono. Occhi negli occhi, la mano di lui ben salda sulla schiena di lei. Fu subito amore tra Seretse e Ruth, ma non fu un amore facile. Perché Seretse Khama era un principe e lei una Cenerentola, impiegata ai Lloyd’s di Londra. Ma ancor più perché lui era nero e lei bianca. E nella Gran Bretagna del ‘47 quello era un matrimonio che non si doveva fare. Sia per l’opposizione delle rispettive famiglie, sia dei rispettivi stati. Che l’erede al trono del Botswana sposasse una donna bianca era uno scandalo insormontabile per lo stato africano e per il governo inglese, visto che in Sudafrica era stato appena introdotto l’apartheid e una coppia interraziale alla guida di un protettorato britannico poteva precludere l’accesso alle risorse di oro e uranio.
E così quell’amore divenne un affare di Stato, osteggiato nei modi più subdoli dai servizi segreti, che se non riuscirono impedire le nozze, riuscirono a separare i due, lui per 5 anni in esilio a Londra, lei sola e incinta in un Botswana ostile. «Eppure, nonostante le pressioni politiche e familiari, il loro legame non vacillò mai, anzi divenne la linfa vitale della battaglia per l’uguaglianza e l’indipendenza del Botswana» avverte Amma Asante, regista di A United Kingdom, da giovedì nelle sale, protagonisti Rosamund Pike e Daniel Oyelowo. Molto somiglianti alla vera coppia, una leggenda del Botswana per aver trasformato un paese poverissimo in uno stato fiorente e democratico, indipendente dal ‘66.
Una favola d’amore capace di cambiare la storia. «Mi ha subito conquistata — spiega Asante, colpita dalle loro foto —. Seretse, così dignitoso ed elegante, mi ricordava mio padre. Un immigrato nella Londra di fine anni ‘60, quando si parlava dei “fiumi di sangue” razziali, discorsi simili alla retorica orrenda di tanti politici di oggi. Allora sulle case e sugli alberghi c’era scritto: “No irlandesi, no neri, no cani”». Cartello che compare anche nel film. «Nella cassetta della posta di casa trovavamo escrementi e scritte insultanti sui muri. Eppure, i miei conducevano una vita dignitosa. Mi hanno fatto studiare, insegnandomi anche la storia del Ghana. Se oggi sono fiera di quel che sono, una cittadina inglese figlia dell’Africa, è grazie alla loro tenacia». Lo stesso messaggio che ha illuminato il cammino di Seretse e Ruth nel Botswana. Asante non ha avuto dubbi, il film si doveva girare lì. «Siamo stati la prima troupe a entrare nel Paese. Abbiamo dovuto chiedere permessi allo Stato e ai capi dei villaggi. Tutti sono stati accoglienti. Curiosi di capire come avremmo raccontato la loro storia sullo schermo». Quando sono tornati per mostrarlo in uno dei tre cinema del Paese, l’emozione è stata fortissima.
Donna bella e impegnata, Amma a sua volta ha sposato un bianco, un danese. «Nessun problema tra le nostre famiglie, quando ci riuniamo tutti è un momento di gioia». Non altrettanto facile affermarsi come regista. «Essere donna è già penalizzante, figurarsi essere donna e nera. Il mondo del cinema dimentica che il 50% della società siamo noi, cercare di zittirci non solo è ingiusto ma è sciocco. La nuova generazione è fatta di donne consapevoli e di questo ringrazio anche Michelle Obama». Di tali battaglie Ruth è stata l’antesignana. Anche dopo la morte del marito si è prodigata per un Paese ormai suo, a promuoverne l’educazione e nella lotta all’Aids. Uniti nella vita, Ruth e Seretse ora riposano insieme nel cimitero di Serowe. Uno dei loro 4 figli, Seretse Jan Khama, dal 2008 è a capo della repubblica democratica del Botswana.
di Giuseppe Manin, Il Corriere della Sera