A casa tutto bene è un disco che parte dalla storia di chi l’ha scritto e si fa narrazione di una generazione, di un momento presente, di un modo di fare cantautorato nel nostro paese che è più vivo che mai. Con estrema consapevolezza, e con l’idea che “a volte basta una canzone, anche una stupida canzone, solo una stupida canzone, a ricordarti chi sei”
Per Francesco Petrarca era come una malattia, quel dialogo interiore tra due parti di sé che non trova pace nemmeno nel sonno e che anzi nel sonno alza la voce. Per Dario Brunori, cantautore calabrese 39enne con il physique du rôle da eroe buono e la battuta sempre pronta, inizia tutto da lì: “Dentro di me ci sono sempre state quantomeno due voci, una che resiste al cambiamento e che cerca di accomodarsi su una comfort zone e un’altra che, invece, cerca di strappare la prima dal divano, di portarla fuori di casa. In questo disco ho cercato di far emergere questo attrito”.
Un attrito suo e di una generazione intera, perché Dario Brunori, in arte Brunori Sas, laureato in Economia e Commercio e mancato commerciante di mattoni, nel suo nuovo “A casa tutto bene” parla di sé. E, facendolo, parla di quei trentacinquenni e ‘su a salire’ che sembrano non interessare a cantanti e cantautori, perché oggi vincono i sentimenti adolescenziali, il tempo immobilizzato, la protesta da social network: “Non era un’intenzione, la mia. Ma inevitabilmente il desiderio di scrivere qualcosa che fosse legato al mio presente ha creato una serie di racconti, un linguaggio e un punto di vista che raccontano persone della mia età. Non l’ho premeditato, ma riascoltando il disco mi rendo conto che è così”.
A casa tutto bene è un album che racconta storie che sono la tua oppure quelle di chi conosci bene e le racconta con un linguaggio ricco, espressione di chi scrive non per caso. “Te ne sei accorto sì, che parti per scalare le montagne e poi ti fermi al primo ristorante e non ci pensi più“, canta Brunori ne La Verità. Perché la voglia di cambiare finisce quasi sempre per mettersi comoda sul divano davanti alla tivù, perché ‘bere aperitivi sui Navigli’ batte ‘mettere al mondo un figlio’ 1-0, perché viene facile guardare all’”Uomo nero” razzista e populista che infesta le bacheche dei nostri social salvo poi impaurirsi se un giovane musulmano ci prega accanto in metropolitana. Oppure non è così?
brunoriContraddizioni, domande e paure. Di tanti, forse di tutti, raccontate senza drammatizzare, con un certo disincanto. Canzoni, quelle di A casa tutto bene, che ambiscono a essere istantanee di un presente: “Nel disco ci sono sicuramente dei brani che hanno a che fare con l’attualità ma non volevo cadere nel cliché del cantautorato militante, quello di denuncia tout court – racconta Dario – Volevo rappresentare un’amarezza di fondo che viene fuori da quello che vediamo, dalla realtà mediata. E’ un sentimento che può essere simile a quello che Battiato esprimeva in Povera Patria: è il guardare alla perdita di umanità, a quello che io considero il lato umano degli umani. E poi ci sono io, io che mi domando come mi stia comportando di fronte a tutto questo. E c’è l’amarezza del confronto con i miei coetanei, il capire che a volte preferiamo non vedere quello che ci circonda, guardare oltre”. Canzoni che ambiscono anche a essere una cura, una medicina, perché “ti salvano la vita , ti fanno dire no, cazzo, non è ancora finita”.
Dodici brani prodotti insieme a Taketo Gohara e al gruppo di sempre in una masseria solitaria, dodici brani che rimettono in circolo l’impressione di un cantautorato italiano vivo e maturo: “L’ambizione era quella di fare un disco più prodotto del solito, che avesse una cura maggiore. La scelta di isolarsi, poi, è funzionale: stare con i ragazzi della band e col produttore dà l’impressione, concreta per altro, di avere più possibilità di seguire i momenti di ispirazione. Essere sempre lì, con gli strumenti sotto mano, ti dà modo di catturare i momenti migliori ed è una cosa che ‘lo studio a ore’ non ti permette di fare”. Ambizione soddisfatta, verrebbe da dire, perché A casa tutto bene suona bene, nel suo mettere insieme archi e loop, mandorle del ‘700 e sintetizzatori.
Un lavoro curato, quello di Brunori, dalla scrittura alla produzione e fino alla grafica: “Mi piace guardare quello che ho fatto e dire “ok ho fatto il meglio possibile”, sia dal punto di vista musicale che dal punto di vista di ciò che c’è intorno. Ho sempre ragionato in questi termini, soprattutto man mano che le risorse sono cominciate ad aumentare e abbiamo avuto più mezzi per fare le cose per bene. E poi penso che alla lunga questa cosa paghi perché è un tipo di approccio che manda un segnale: si spera che le cose belle, fatte per bene, ancora piacciano agli umani. Si spera che ancora rimanga un po’ di gusto del ben fatto”.
A casa tutto bene è un disco che parte dalla storia di chi l’ha scritto e si fa narrazione di una generazione, di un momento presente, di un modo di fare cantautorato nel nostro paese che è più vivo che mai. Con estrema consapevolezza, e con l’idea che “a volte basta una canzone, anche una stupida canzone, solo una stupida canzone, a ricordarti chi sei“.
di Claudia Rossi, Il Fatto Quotidiano