L’inedito era disperso in un raccoglitore nell’antica Fondazione Fellini di Rimini
Se ne parlava da un bel tot. «Verso Omero, il padre di tutti i narratori, si esaltava in una gratitudine inarginabile», scrive Gianfranco Angelucci, in un saggio su I libri di Fellini accolto nel catalogo di una mostra quasi omonima (La biblioteca di Fellini) svoltasi nell’ormai defunto Museo Fellini di Rimini che ora ne attende uno nuovo di pacca, con 9 milioni provenienti per direttissima dal Mibact nel 2008.
Proprio lì si accennava a un «progetto di un film sui miti greci che riemergeva periodicamente nei periodi di interregno fra un’opera e l’altra». Fellini di «una serie televisiva: I miti greci», parlò in prima persona, per altro, a Oreste del Buono, mentre girava E la nave va, ma il progetto, come altri, tra l’altro, ad esempio il leggendario Viaggio di G. Mastorna, era destinato a restare, appunto, nel mito. «Ne parlò anche a me, nel 1991, mentre mi accompagnava all’Istituto archeologico Germanico di Roma», ci dice Rosita Copioli, poetessa di mestiere e «fellinologa» di fatto (per Medusa ha curato, nel 2014, l’Intervista con Federico Fellini di José-Luis de Vilallonga; nel 2013, invece, allestisce per il Comune di Rimini una mostra su Federico Fellini. I libri). Proprio in quella gita vien fuori che Fellini nel mausoleo del sapere è già stato «diversi anni prima, a chiedere consigli bibliografici per un film che avrebbe voluto fare». Ora, quel progetto di film passa dalla leggenda alla carta, in concomitanza con il compleanno del regista (il 20 gennaio avrebbe compiuto 97 anni), ed è anche l’esordio all’editoria del nuovo marchio, Sem (Società Editrice Milanese) inventato da due «colonnelli» usciti da Mondadori, Riccardo Cavallero e Antonio Riccardi. Il testo, L’Olimpo (pagg. 144, euro 15), finora inedito, scoperto dalla Copioli una manciata di anni fa, era, paradosso «borgesiano», sotto gli occhi di tutti, in un raccoglitore disperso nell’oceano di materiali dell’antica Fondazione Fellini e ora patrimonio del Comune di Rimini. Perché nessuno l’ha visto prima? Chissà, forse perché l’essenziale è invisibile agli occhi.
Il testo, «di ottantasei pagine scritto agli inizi degli anni Ottanta dopo l’uscita sugli schermi italiani de La città delle donne» (così Gérald Morin, storico collaboratore di Fellini), inscena una specie di abbuffata erotica ai limiti del grottesco. Afrodite, che nasce «dall’acqua marina dove sono affondati i genitali di Urano» è dotata di «due meravigliose mammelle di donna, due interminabili cosce»: dove saltella lei «seguitano a sbocciare i fiori» e al suo passaggio «i falli dei pastorelli (e dei bimbetti-amorini) si ergono innocentemente in una precoce erezione erotica». Zeus, va da sé, «questo divino Casanova dei Superi, il sublime don Giovanni dei beati regni», è un «mitico atleta divino della foia sessuale», intento a intingere il suo «divino fallo promessa di inesauribile penetrante delizia» ora qui ora là, in una versione porno soft della mitologia classica (immaginatevi la scena di Pasifae «che nelle sue lussuriose visioni desidera ancora la penetrazione del toro» e si lancia «in delirante masturbazione»), dove Dioniso lancia «altissime cantate grida» davanti alle mura di Tebe «simili a quei grandi contestatori giovanili del ’68». Pare tutto davvero troppo, lo ammette anche Morin, «si è completamente cambiato registro» rispetto ai film felliniani. E qui si erge (per restare in metafore falliche) l’ennesimo mistero per i fellinologi. Il testo dato alle stampe, infatti, è dattiloscritto ed esiste solo «in fotocopia». Fotocopie, ci dicono i custodi dell’archivio riminese che l’hanno in dote, piuttosto rovinate; soprattutto «non si è ancora trovato l’originale». E se questo, più che un progetto di film, fosse un incredibile «scherzo» teso da Fellini o da quelli del suo harem ai fellinisti?
Davide Brullo, il Giornale