Con «Black Out» è on air dal 1979: 37 anni che ne fanno il programma più longevo nel palinsesto di Radio2. Vaime riflette sulla radio di ieri e di oggi, sulla tv che è e che fu
Come autore televisivo ha firmato 200 programmi, come conduttore radiofonico la sua voce è on air con Black Outdal 1979: 37 anni che ne fanno il programma più longevo nel palinsesto di Radio2. Enrico Vaime riflette sulla radio di ieri e di oggi, sulla tv che è e che fu.
Perché nonostante avesse già vinto il concorso in Rai si è laureato comunque in Giurisprudenza?
«In effetti non ho mai avuto intenzione di fare l’avvocato, né il magistrato. Mio padre ci teneva e se lo meritava: laurearmi è stato un atto di inutile eleganza»
Tantissimi incontri e relazioni, ha lavorato con i più grandi, da Villaggio a Mina, quale l’artista umanamente più empatico?
«Gino Bramieri ci ha viziato: era generoso, corretto, quasi ubbidiente. Montesano era molto più movimentato, ci fece uscire dal tran tran a cui eravamo abituati».
Paolo Villaggio?
«Fu un incontro casuale nel locale di Maurizio Costanzo dove c’era questo pazzo che aggrediva il generone romano che amava farsi maltrattare. Una folgorazione».
Il successo fu anche la Canzonissima 68 con Mina, Walter Chiari e Paolo Panelli.
«Eppure partì tra mille difficoltà. Erano scappati tutti gli autori, letteralmente squagliati. E noi fummo chiamati a metter su quel baraccone di cui la Rai sembrava non potere fare a meno. Ma non ci siamo mai montati la testa. Certo prima accettavamo tutto, poi siamo diventati selettivi. Ma appena mettevamo su un po’ di boria ci pensava il destino a riportarci a terra».
A «Black Out» è transitato il primo Fazio, quando faceva l’imitatore.
«È un mio vanto, l’ho preso che era un cucciolo, balbettava spaventato dal riscontro che poteva avere. Ma era più che un imitatore. Infatti è diventato un bravissimo uomo di tv, a tutto campo».
Ora c’è Neri Marcoré.
«Anche se l’ha capito da tempo, gli sconsiglierei di fare l’animatore televisivo. Lui non è un personaggio tv, è sempre attore, in qualunque cosa faccia».
In ultimo ma non certo per ultimo Maurizio Costanzo.
«È il mio migliore amico, sempre presente. Io ho due anni in più e lui me lo rinfaccia sempre. È una persona perbene, anche se di questi tempi è un termine impopolare».
Un altro amico è stato Ennio Flaiano.
«Il mio maestro e referente. In più eravamo anche amici. Era irresistibile, aveva uno straordinario umorismo e altrettanta cultura. Umanamente aveva scatti di carattere, era fumantino, ma anche oggi a distanza di tanti anni posso dire che era sempre nel giusto».
Meglio la radio o la tv?
«Ho sempre preferito la radio: è molto più affascinante perché — a differenza della televisione — richiede la collaborazione psicologica dell’ascoltatore e ha un codice comportamentale che non si presta a vistosi svaccamenti. La tv invece con il supporto delle immagini è aperta a soluzioni meno eleganti».
La radio di ieri?
«Gli anni 60 e 70 furono costruttivi, noi affrontammo in modo conflittuale un vecchio marchingegno incentrato su cariatidi e vecchi schemi che riuscimmo a scardinare».
La tv in bianco e nero era meglio?
«Era senz’altro più cauta, più composta, anche più noiosa, ma tutti gli anni c’erano picchi interessanti e mai momenti disastrosi».
Oggi chi la fa ridere?
«Sono legato al vecchio, perché sono vecchio. Per me il massimo della modernità sono Cochi e Renato. I cabarettisti di recente conio li trovo di qualità inferiore rispetto alla generazione dei maestri che avrebbero dovuto sostituire».
I social network questi sconosciuti dunque?
«Sono un fenomeno dell’oggi. Ho sempre fatto scelte culturali ed estetiche di un certo tipo, ho difeso questi valori e se i social network si conformano a questi valori vanno benissimo».
Il bilancio dei suoi primi 81 anni?
«Non avrei scommesso 5 lire su di me. Ero romantico e battagliero, poi ho messo la testa a posto che è un’espressione che mi fa venir voglia di buttarmi sotto un treno. Ma non mi pento di nulla. Sono decrepito, ormai sono un reperto. Ma finché sto in piedi va bene. Non mi lagno».
di Renato Franco, Il Corriere della Sera