Che fine ha fatto Tim Burton e dove è finita la sua arte di stupire lo spettatore con forti emozioni intrise di un realismo magico sospeso tra l’immaginario e il fantastico? Ce lo siamo chiesti in più momenti guardando il suo nuovo film, l’atteso ‘Miss Peregrine-La casa dei ragazzi speciali’ (Miss Peregrine’s Home For Peculiar Children), presentato martedì a Roma alla presenza del regista e in uscita il 15 dicembre prossimo anche da noi per la 20th Century Fox. Avevamo letto con grande attenzione ed amato davvero tutti e tre i libri da cui è tratto, la sorprendente trilogia dell’americano Ransom Riggs, pubblicata in Italia da Rizzoli, un caso editoriale da più un milione di copie vendute.
Ci eravamo appassionati a quei personaggi, a quei luoghi e ai racconti del nonno Abraham (nel film è Terence Stump), “la persona più affascinante del mondo” secondo il nipote sedicenne, il timido e impacciato Jacob (Asa Butterfield), l’unico a credere alle sue storie, più vere di quanto si immagini. Nelle quasi mille pagine, ci eravamo appassionati a quei bambini ‘speciali’ e partecipato alle loro avventure, ma poi? Cosa è successo? Con Burton alla regia, pensavamo di avere una conferma più che un ‘tradimento’ in tal senso, avevamo creduto che tutto potesse accadere, perché con uno come lui – che ci ha regalato capolavori come ‘Edward mani di forbice’, ‘Nightmare Before Christmas’, ‘La fabbrica di cioccolato’ e ‘La sposa cadavere’ (ma l’elenco potrebbe continuare ancora per molte righe) – tutto è possibile, o quasi.
Non è stato così per ‘Miss Peregrine’ e sono bastati i primi ventidue minuti del film (orologio alla mano) per capire che la noia, ahinoi, avrebbe avuto la meglio per buona parte della sua durata, poco più di due ore. Quel modo in cui gli ambienti e i personaggi ci sono mostrati proprio in quei primi momenti in cui il giorno è grigio e la notte è nera – un’atmosfera che fa subito serie tv ‘a tema’, ma non certo di qualità – disorienta senza portarci da nessuna parte, se non nella triste stanza di una psicologa (è Allison Janney) in un’indefinita città della più orrenda provincia americana – ipocrita, bigotta, puritana, con case basse e tutte uguali – o in un Galles dove tolti gli splendidi (e ovvi) scenari naturalistici, niente è poi così invitante. I minuti passano, non succede quasi nulla quando – finalmente– entra in scena Eva Green (la Miss Peregrine del titolo), e abbiamo pensato, ma solo per poco, che lei, bellissima e perfetta nella sua mise gothic che tanto sarebbe piaciuta ad Alexander McQueen, elegante persino quando fuma un pipa, potesse dare una svolta, ma nulla. Non è bastato neanche l’incontro di Jacob con i bambini speciali: non ci si affeziona a nessuno di loro (cosa rara in un film di Burton) e il distacco provato nei confronti del protagonista è totale. Sappiamo che farà qualcosa, che è il ‘buono’ della situazione, ma non siamo mai dalla sua parte.
La situazione migliora un po’ nell’unico momento veramente ‘burtoniano’ del film (la scena sott’acqua) o quando compaiono Judy Dench e Rupert Everett (non vi sveliamo quando e perché), ma – come già detto – si tratta solo di momenti che tornano a peggiorare nella battaglia finale in un improbabile luna park dei nostri giorni. Aiutati dal 3D, qualche brio in più lo proverete quando arrivano i cattivi con occhi bianchi o senza, tolti o mangiati, comunque al centro dell’attenzione, con un palese rimando a Hitchcock, Buñuel, Pasolini e Kubrick e al suo significato, un attacco diretto allo spettatore e alla sua natura che esige occhi che siano ben spalancati sullo schermo. Capiamo la difficoltà nel realizzare un film da una storia non propria (ma nel suo caso, non è la prima volta), capiamo che tutto è stato fatto per prepararci a un seguito che non tarderà ad arrivare secondo logiche hollywoodiane, capiamo tutto, ma noi – quegli occhi – avremmo davvero voluto spalancarli di più, caro signor Burton. Siamo in attesa di un suo ritorno, quello vero.
L’HuffingtonPost | Di Giuseppe Fantasia