Allo Stabile di Torino una maratona teatrale per omaggiare l’autrice di “Lessico famigliare”
Forse è arrivato il momento di fare o di rifare i conti con il teatro di Natalia Ginzburg. Ce ne dà occasione lo Stabile di Torino che, ricordando con l’Università e con il Circolo dei Lettori i cent’anni dalla nascita dell’autrice di “Lessico famigliare”, ha propiziato la messa in scena di un trittico composto da “Dialogo”, “La segretaria” e dall’inevitabile “Ti ho sposato per allegria”: tre testi non distanti fra loro affidati alla regia di Leonardo Lidi e all’interpretazione di Giorgia Cipolla, Elio D’Alessandro, Christian La Rosa e Ilaria Matilde Vigna.
Ce n’era abbastanza, nella sala Pasolini del Gobetti, per cercare di capire le ragioni per cui, giustamente o no, comprensibilmente o no, l’opera drammatica della Ginzburg si sia sempre tenuta in penombra rispetto alla produzione letteraria. Eppure, come si è potuto verificare durante questa maratona teatrale, la Ginzburg attrae, la Ginzburg diverte, la Ginzburg mette in testa rovelli e magari spiazza. E dunque?
Non sembra che la Ginzburg sia diventata commediografa sulla spinta di uno slancio irrefrenabile. Quando, nel 1964, rispose con altri trenta scrittori italiani alle domande della rivista “Sipario” sui motivi per cui i narratori nostrani non si dedicavano al teatro, rispose che la difficoltà stava nella lingua. A suo modo di vedere, e fatta eccezione per l’opera di Eduardo De Filippo, non esisteva un italiano in grado di esprimersi sulla scena con efficacia. Eppure, nello stesso anno dell’inchiesta, la Ginzburg scrisse per l’attrice Adriana Asti la sua prima commedia, la più nota: “Ti ho sposato per allegria”, il cui successo giustificò la successiva trasposizione cinematografica con Monica Vitti.
Che era successo? Forse una cosa molto semplice. Negli anni precedenti Natalia aveva soggiornato per un lungo periodo a Londra e si era imbattuta in due autori: il drammaturgo Harold Pinter e soprattutto la scrittrice Ivy Compton Burnett, che lei cercò disperatamente di far pubblicare in Italia e di cui apprezzò infinitamente la capacità di creare narrativa attraverso il dialogo. Ebbene: questi due autori lasciarono sulla sua pelle di drammaturga renitente l’imprinting di un linguaggio e di uno stile secco, aforistico, lapidario, umoristico, che poi troviamo nelle sue commedie, al cui centro la Ginzburg pone le donne ma non il femminismo, le donne sciroccate, leggere di testa, prive di centro e di ancoraggi, le donne che magari sposano il primo venuto per un equivocato bisogno di solidità o soltanto “per allegria”.
Capite che non siamo molto lontani dal teatro dell’assurdo. E se considerate l’assenza di una “trama” e la mancanza di una impalcatura psicologica, vedete che ci troviamo nel rarefatto empireo della stilizzazione più pura. Tutto ciò che accade nel teatro della Ginzburg si trova nelle parole delle sue figurine e soltanto in esse. Pensare di conseguenza a un certo Beckett (maestro di Pinter) diventa quasi inevitabile. Ed è con questa chiave che il regista Leonardo Lidi ha aperto la porta del suo trittico. Non gli occorrono apparati scenografici in cui ambientare azioni ed eventi che non esistono (un divanetto è più che sufficiente). Ha bisogno soltanto di attori capaci di suscitare un clima. Ed eccolo adottare gli straniamenti, gli sdoppiamenti, il gioco di specchi con cui un interprete si riflette in un altro a cui può anche passare la propria battuta perché la completi.
Lavoro semplice soltanto in apparenza. Basta una minima perdita di controllo per mandare tutto all’aria. Il quartetto d’attori affronta l’impresa con una disciplina ammirevole e con un esatto senso del ritmo. Sono tutti giovani, appaiono bene amalgamati, sanno recitare con dedizione e con leggerezza, sanno usare tempi a volte velocissimi con i quali, invece di sfracellarsi, riescono ad involarsi verso un assurdo cercato soltanto “per allegria”. Eccellente risultato. E non sembri azzardato chiedere allo Stabile di non lasciar morire questa operazione, ma di continuare a farla vivere, almeno per un po’.
di Osvaldo Guerrieri, La Stampa