NANNI MORETTI: “OGGI LA VIOLENZA VERBALE È LA STESSA DI PALOMBELLA ROSSA”

NANNI MORETTI: “OGGI LA VIOLENZA VERBALE È LA STESSA DI PALOMBELLA ROSSA”

La pallanuoto, la sinistra in crisi, il deterioramento del linguaggio. Sequenze e dialoghi indimenticabili. Al Torino Film Festival il regista ha presentato la versione restaurata del suo film del 1989

nanni-moretti“Un giovane critico cinematografico comunista scrisse all’epoca: “Ma questo è un film vecchio! Un film sul Pci di Natta, non su quello attuale di Occhetto, che non ha certo problemi di identità”. Bene, Palombella rossa esce a settembre del 1989, dopo due mesi crolla il Muro di Berlino, crolla il Pci, crolla tutto e non rimane più niente”.
Nanni Moretti è al bar dello storico albergo torinese Principi di Piemonte. Tira fuori un blocco di appunti e pensieri che legge, commenta, corregge, davanti a una cioccolata calda. Sta per andare a presentare il restauro di Palombella rossa al Torino Film Festival. “Quel film non mi sembra invecchiato. Mi sembra che parli ancora, che mi parli ancora. Per esempio la violenza verbale di quei due personaggi ossessivi con i dolci che urlano a Michele: “Tu devi fare i nomi e cognomi di quei deputati da denunciare!”. Mi sembra, in tempi di violenza verbale e di gente che usa le parole come proiettili, che quei personaggi non abbiano perso di attualità, anzi. Le loro urla anticipavano ciò che abbiamo tutti oggi davanti agli occhi. Ma anche la frase che ripete continuamente Michele, “siamo uguali ma siamo diversi, siamo diversi ma siamo uguali”: anche quella mi sembra che non appartenga solo al passato”.
Non le sembra che la sinistra di oggi sia un po’ meno diversa e un po’ più uguale?
“Però c’è sempre il tentativo e il desiderio di essere un mondo a parte”.
Nel film si parlava anche dei professionisti della politica.
“Io non capisco questa mania che ha contagiato tutti, di essere contro la politica come professione. Non ho nulla contro il professionismo in politica; penso che sia un mestiere, anche difficile”.
Il film è rimasto celebre per come criticava ferocemente la deriva del linguaggio, l’uso di frasi fatte: “trend negativo”, “matrimonio a pezzi”…
“In realtà non ho usato le espressioni che più detestavo. Perché anche se messe tra virgolette e criticate, sarebbero comunque rimaste in un mio film… Quindi mi sono fermato un gradino prima delle espressioni di gergo che più detesto”.
Il film parla di un dirigente comunista che è anche un giocatore di pallanuoto e che improvvisamente perde la memoria, non sa letteralmente chi è.
“Mi sembrava che ci fosse nel Pci un problema di memoria rispetto al proprio passato, un tentativo di dimenticare il proprio passato e di farlo dimenticare agli altri: per questo il protagonista del film ha un’amnesia”.
Questo è l’ultimo film con Michele Apicella, ha mai pensato che ne sarebbe oggi di lui?
“No, né mi è mai venuto in mente di presentarlo di nuovo. E al riguardo, c’è forse un altro motivo per cui ho scelto proprio un’amnesia per raccontarlo: mi è venuto in mente a film finito. Forse io come regista e come attore non volevo rifare sempre lo stesso personaggio, e come sceneggiatore ero stanco di scrivere sempre storie in cui da una parte c’era il mio protagonista, e dall’altra gli amici un po’ superficiali e cialtroni con cui litigare. Forse Michele non si ricorda più chi è perché io come sceneggiatore attore e regista volevo lasciarmelo alle spalle. E aggiungo una cosa forse troppo intelligente per me, magari me l’avrà detta un giornalista francese ventisette anni fa: i personaggi che nel film entrano in relazione con Michele è come fossero gli spettatori dei miei film che, ricordandomi dei pezzi di me stesso e della mia vita, mi obbligano a reinterpretare sempre lo stesso personaggio”.
Subito dopo “Palombella rossa” ha girato “La Cosa”, un documentario sulla fine del Pci fatto di interviste ai militanti. Poi, qualche anno fa, ha provato a rifare un documentario simile ma ha rinunciato.
“Sì, sei anni fa ho chiesto ad alcuni documentaristi di fare nuove interviste a militanti comunisti; però il tanto materiale che avevo raccolto era freddo e aneddotico, mentre invece nelle settimane di fine ’89 in cui ho girato La Cosa c’era già, non per merito mio ovviamente, una “drammaturgia” forte. Era una specie di autocoscienza nazionale in pubblico. E che sia passato davvero un secolo lo si capisce dal fatto che quelle discussioni interessavano non solo i militanti e gli elettori del Pci ma un paese intero. Una cosa oggi inimmaginabile. Allora tutto il paese guardava con attenzione e rispetto a quelle discussioni in cui c’era angoscia e speranza, paura e sollievo”.
“Palombella rossa”, rispetto ai precedenti (“Bianca” e “La messa è finita”), che erano più narrativi, ha una struttura più libera.
“Nella seconda metà degli anni Ottanta mi sembrava ci fosse al cinema un ritorno di accademismo. Per tanto tempo era stata messa in secondo piano (sia dal cinema commerciale, sia dal cinema d’autore) l’importanza della sceneggiatura. Ora, giustamente, se ne ribadiva l’importanza. Ma c’era come un odore di compitini ben fatti, la soddisfazione di raccontare benino storie che erano state già raccontate molto meglio tanti anni prima. E allora, per reazione, decisi di raccontare la crisi di un comunista in modo narrativamente molto libero. Dopo La messa è finita sapevo di essere in grado di raccontare una storia, con una trama e tutto al posto giusto, però non volevo fare l’ennesimo film realistico su un comunista in crisi: la crisi politica, che va di pari passo con la crisi esistenziale e familiare…. E ho cominciato a girare senza una sceneggiatura dettagliata”.
In questi anni, quale cinema la incuriosisce e la appassiona di più in Italia?
“Quello che non mi piace è il cinema stilisticamente sbruffone, che oggi va tanto di moda e tanto piace, il cinema compiaciuto di se stesso. Io penso che fare cinema sia anche resistere alla tentazione di “fare del cinema”. Tra i più giovani metterei Matteo Garrone e poi Alice Rohrwacher e Leonardo Di Costanzo, che però hanno fatto pochi film, quindi aspettiamo. Mi sembra comunque che ci sia una degenerazione del gusto, che riguarda sia il pubblico che la critica. È triste ma è così”.
In “Palombella rossa”, per la prima volta, lascia Roma che era stata protagonista di tutti i suoi film.
“Avrei potuto girare a Roma risparmiando un sacco di soldi, ho scelto Acireale perché volevo girare in trasferta. Volevo che il film fosse racchiuso tra un viaggio d’andata e uno di ritorno. Ma soprattutto volevo che la partita decisiva del campionato fosse giocata in trasferta dal mio dirigente comunista. Volevo che avesse il pubblico contro. Mentre lui sta cercando di ricordare qualche frammento della sua vita, tutti gli spettatori gli urlano in coro: “Michele, è finita, hai perso la partita!””.
Fu un set complicato.
“È stato senz’altro il mio film più faticoso fisicamente. Dovevo giocare a pallanuoto, recitare, spesso urlando durante le fasi di gioco, dirigere pallanuotisti che non erano attori, dirigere e domare centinaia di spettatori, che alle tre di notte gridavano in coro: “Moretti! Moretti! Vogliamo li cornetti”. Appena arrivati ad Acireale, facemmo un sopralluogo in piscina. Era buio, c’erano i pipistrelli. I miei collaboratori mi domandarono: “Ma sei sicuro di girare anche di notte?”. Sì, ero sicuro. Una partita che inizia di giorno con pochissimi spettatori e finisce di notte con la tribuna stracolma di gente che fa il tifo. Sul set avendo rinunciato ai tradizionali cestini, si erano formate due cucine rivali, quella delle sarte e quella degli elettricisti e solo in tre avevamo diritto ad assaggiare entrambe: io, mio padre che interpretava il sindacalista, e Gianni Buttafava, grande intellettuale e amico che mi è molto mancato in questi anni. Gianni nel film era lo psicoanalista dell’arbitro. Abbiamo girato in condizioni estreme. Avevo commissionato un backstage a un amico ma lo annullai per paura che venisse meglio del film. Nella scena in cui davo un pugno a un giocatore all’ultimo ciak mi sono rotto un dito. Per fortuna ho montato proprio quel ciak”.
Fu anche la prima volta di Silvio Orlando in un suo film.
“Il suo personaggio era ispirato al mio vero allenatore, Roberto Pizza. Con Silvio è stato l’inizio di un sodalizio, per quanto mi riguarda, veramente felice”.
Il film fu rifiutato dal concorso della Mostra di Venezia.
“Da tutta la selezione ufficiale. Fu scelto come evento speciale alla Settimana della critica”.
All’estero come è stato accolto un film così legato alla politica italiana?
“Vi dico come è stato titolato in Germania: Wasserball und Kommunismus . Pallanuoto e comunismo”.
Che effetto le fa restauro di un suo film?
“Mi ha fatto un po’ impressione che ci fossero già miei film da restaurare. Ma poi, quando l’ho visto, mi ha fatto piacere poter avere l’occasione per tornare al Torino Film Festival, a cui sono da sempre molto legato: come spettatore, come regista, e come ex direttore. Poi, sabato 3 dicembre, proietterò Palombella rossa al Nuovo Sacher per chi non lo ha visto o lo ha dimenticato”.
È il giorno prima del referendum…
“Sì. Anche nel mio film i personaggi parlano spesso del “voto di domani”…”.
Del referendum non le chiediamo nulla…
“Tanto non risponderei” (sorride).

di ARIANNA FINOS e EMILIANO MORREALE, La Repubblica 

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