Due anteprime sulla storia della giornalista Christine Chubbuck, che si tolse la vita durante il tg locale di Sarasota nel 1974. Il primo diretto da Antonio Campos e con protagonista la statuaria Rebecca Hall; il secondo un finissimo documentario diretto da Robert Greene e interpretato dalla giovane Kate Lyn Sheil. Dal Concorso torinese anche l’esordio alla regia per Andrea De Sica con l’atteso thriller I figli della notte
“In linea con la recente politica di Channel 40, ‘sangue e budella’, state per vedere a colori un altro tentativo di suicidio”. Il 15 luglio 1974, la giornalista 29enne Christine Chubbuck lesse queste poche parole come fossero una semplice news del tg locale di Sarasota (Florida) dove lavorava, poi estrasse un revolver dalla borsa, lo puntò alla nuca dietro l’orecchio destro e si sparò. Il primo suicidio della storia ad essere trasmesso in diretta tv, traccia sanguinante irreperibile perfino sull’odierno web delle meraviglie, diventa tema spiazzante e reiterato nelle ultime 48 ore del 34esimo Torino Film Festival con ben due film: il primo, più classico, Christine, diretto da Antonio Campos e con protagonista la statuaria Rebecca Hall; il secondo Kate plays Christine, finissimo documentario diretto da Robert Greene e interpretato dalla giovane Kate Lyn Sheil.
Da un lato il biopic puro, dove il personaggio si costruisce pezzo per pezzo nei suoi tic, idiosincrasie, problematiche esistenziali, vita all’interno della tv locale di Sarasota; dall’altro l’avvicinamento alla figura di Christine attraverso la costruzione del personaggio in una presunta serie di scene di un film che si farà, dove la Sheil offre un’immersione nella vita della ragazza suicida che è prima di tutto informazione per se stessa, dettaglio dopo dettaglio di vestiti, capelli e linguaggio, per gli spezzoni di un’opera che mai esisterà. Così se in Christine di Campos è l’accumulo di dati a creare drammaturgia, sono le possibili cause di una depressione che colse la ragazza travolta dalla competizione coi colleghi, bistrattata dal conduttore del tg di cui sembrava essere innamorata, ancorata ad un rapporto morboso con la madre, a farsi senso dell’opera; in Kate plays Christine è invece l’emersione dell’indifferenza sociale degli abitanti di Sarasota, la damnatio memoriae di un gesto che fu eclatante, ma che ora è un ricordo strano, scomodo e indecifrabile, se non in chiave di malattia personale della ragazza, a rivivere beffardamente in scena.
ià perché il suicidio di Christine Chubbuck venne usato a pochi mesi dalla tragedia come fonte d’ispirazione dallo sceneggiatore Paddy Chayefsky per scrivere Quinto Potere (1975) di Sidney Lumet. Qui l’arrabbiata Christine, incapace di comprendere la trasformazione ontologica del sistema delle news sempre più orientate verso il sensazionalismo, diventa l’incazzato predicatore anti establishment Howard Beale. Strana metamorfosi cinematografica. Anche perché il dolore che prova la trentenne giornalista è qualcosa di tremendamente personale e solitario, di femminile (la verginità, la ricerca d’indipendenza, la malattia alle ovaie) e in un certo senso terribilmente razionale. Beale, invece, sarà il progenitore impazzito del “vaffa”, quel “sono incazzato nero e tutto questo non lo accetterò più”. Christine è scavalcata dai picchi di audience che non riesce a creare con la sua seria professionalità e forse anche per questo reagisce caricando su se stessa il peso di un audience mai davvero agognata che verrà solo da morta; Howard (Peter Finch) è infine un record di ascolto dopo l’altro che con il suo suicidio in diretta non fa che chiudere il primo ciclo dello sciacallaggio della diretta. Insomma, se volete capirne di più di ciò che accadde alla povera, graziosa e triste Chubbuck il film di Greene offre la circumnavigazione del fenomeno storico 40 anni dopo; quello di Campos, con una macchina da presa che spesso schiaccia in diagonale il viso e il corpo di una Hall psicologicamente travolgente, è il diario quotidiano di una lenta agonia umana e sociale.
Dal Concorso torinese, infine, alcune considerazione sull’atteso thriller I figli della notte, esordio alla regia di Andrea De Sica, figlio dello scomparso compositore Manuel, nipote di zio Christian e di cotanto nonno Vittorio. Poche idee e parecchio confuse nella rappresentazione di un austero collegio per figli di ricchi isolato in alta montagna. Protagonista è il 17enne Giulio (Vincenzo Orea), all’improvviso parcheggiato lì dalla madre, che tra lezioni di finanza, microeconomia e marketing, evita le punizioni corporali dei “nonni” con la maschera da giocatore di hockey, e lega con il ribelle Edo (Ludovico Succio). Fuga notturna ad eludere presunte (e mai desunte dallo svolgimento del film) discipline fisiche e morali dell’istituto, per un postribolo dove appaiono in profondità di campo uomini in Lederhosen e dispenser di birra come al pub. Giulio si innamora di una ragazzina prostituta di chiare origini slave che ciuccia un leccalecca come Lolita. La trascinante amicizia con Edo si sgretola fino al gesto estremo del ragazzo e ad un omicidio che rivela quanto la classe dirigente del domani si prepari fin sui banchi di scuola ad essere la peggio feccia morale del paese.
De Sica prova ad evocare atmosfere, riferimenti filmici pregressi, ipotesi di ambientazione che non vivono mai di una rappresentazione visiva autonoma, limitandosi a casuali suggerimenti di location manager della film commission Alto Adige; ad una recitazione di sicuro volutamente atona e monocorde che toglie però ogni possibile appiglio drammatico al film; ad una regia lenta e macchinosa riassunta nel sillogismo sballato delle carrellate corridoio albergo montagna alla Shining. Ma soprattutto se c’è un grande punto interrogativo de I figli della notte è la mancanza di un nucleo drammaturgico a livello di scrittura, dal quale diramare poi ogni altra scelta produttiva ed espressiva. Più che Kubrick, come si legge nella straordinaria sinossi del film nel catalogo del TFF 2016 (a proposito, chi scrive le schedine si palesi perché è un genio), il film di De Sica è un’opera sulla falsariga estetica di un Saverio Costanzo. Senza però i nerissimi burroni e precipizi dell’anima ad esempio de La solitudine dei numeri primi.