Alzino la mano i lettori che conoscono il cinema di Harun Farocki. Cineasta molto prolifico ma praticamente sconosciuto in Italia, Farocki è in questi giorni al centro di una ricca sezione monografica che gli dedica il Torino Film Festival, in corso fino a sabato 26, e di una installazione presso la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo.
Autore tedesco, ma di fatto internazionale, morto appena due anni fa mentre era ancora in piena attività, Farocki pratica un cinema-saggio, un cinema che si interroga sulla natura dell’immagine, sulle sue implicazioni, sulla percezione e sul ruolo dello spettatore, sulle immagini canonizzate dalla storia del cinema. E lo fa smontando e rimontando immagini per scoprire tutta l’energia che esse possono liberare.
In questo Farocki è una sorta di Godard numero due (e, giocando un po’ con le parole, si può ricordare che Numéro deux di Godard lo influenzò molto). Non è facile tradurre in parole un cinema che fa dello svisceramento dell’immagine il suo focus: per questo è proprio cinema. E per questo occorre un piccolo esercizio di pazienza al quale invito i lettori: prendetevi il tempo per guardare questi pezzi di cinema con calma, quasi per sorseggiare le immagini, come si fa con un vino da meditazione.
Prendiamo la scena primordiale del cinema, quel primo film dei fratelli Lumière che riprende l’uscita degli operai dalla fabbrica. Farocki lo mostra all’inizio di Workers leaving the factory. E poi scava dentro la memoria del cinema per trovarvi le altre immagini di operai che escono dalla fabbrica, siano quelle della Volkswagen di Emden negli anni Settanta o quelle della Ford di Detroit negli anni Venti: operai massa, accomunati dall’impazienza di uscire, da una fretta che li fa letteralmente correre via. Il cinema ha riproposto spessissimo quest’immagine primigenia dell’uscita dai cancelli come se fosse la prima parola che un bambino ha pronunciato e che riaffiora all’infinito sulle sue labbra.
Ma i cancelli della fabbrica non sono soltanto luoghi di uscita frettolosa, sono anche luoghi di scontri, di rivendicazioni, oppure luoghi di incontri amorosi. Oppure, ancora, luoghi di una paura silenziosa, quella dei disoccupati che sperano di essere chiamati per una giornata di lavoro. Altrove la massa non è più vista come tale: le immagini di sorveglianza, come quelle che oggi sono riprese dalle telecamere di controllo delle metropolitane, contano attraverso un software i passeggeri che transitano.
E’ la scomposizione della folla in numeri, come si vede in un altro film, Counter-Music, il contrario della visione della massa tipica del cinema degli anni Venti, quello dei Vertov o dei Ruttmann. Altre immagini, altre visioni: le microcamere che esplorano dentro il corpo umano e che fanno sì che la persona diventi letteralmente un mondo, un mondo nuovo come quello delle meraviglie settecentesche. Le immagini costruiscono mondi, come già suggeriva la pratica, adottata durante la Seconda guerra mondiale, di dissimulare i paesaggi con scenografie finte in modo da ingannare gli aerei nemici: un secondo mondo si sovrapponeva a quello reale.
E le immagini costruiscono mondi anche solo guardando l’espressività delle mani, le quali sono oggetto di un altro film, The expression of hands, che scompone anche fisicamente l’immagine. Qui Farocki utilizza più schermi, mostrando le mani, luogo del tatto, attraverso la tattilità dell’immagine, il suo essere fatta di asperità e di rughe, di strappi e di accelerazioni. Juste une image, giusto un’immagine, come diceva Godard.
Farocki lavora anche sulle installazioni, sul “cinema da museo”, una delle nuove frontiere del cinema, dopo che le immagini del cinema stesso hanno rotto quella sorta di patto monogamico con la sala. Lo spettatore è chiamato a un ruolo più attivo, a “montare” lui stesso il proprio film, percorrendo gli schermi, scegliendo cosa, quando e per quanto tempo vedere. Una sorta di Vertov del XXI secolo. Saper guardare le immagini, suggerisce Farocki, è oggi il nostro destino e la nostra battaglia: non è un caso che oggi perfino le guerre si facciano più sulle immagini delle simulazioni, come fossero videogiochi, che non sui campi di battaglia.
di Augusto Fainati, Il Fatto Quotidiano