Il film diretto da Gary Ross (Pleasantville, Hunger Games) è anteprima italiana al 34esimo Torino Film Festival, è uno di quei film politici che Hollywood avrebbe potuto mettere in piedi nei tempi migliori della controcultura anni settanta
Bianchi, neri, donne e uomini. Tutti uguali. Tutti sfruttati. Tutti alla mercé di padroni che hanno bisogno di schiavi di ogni genere sottopagati, sfiancati, fottuti, per creare il loro personale profitto. Free State of Jones, diretto da Gary Ross (Pleasantville, Hunger Games), prima italiana al 34esimo Torino Film Festival, è uno di quei film politici che Hollywood avrebbe potuto mettere in piedi nei tempi migliori della controcultura anni settanta. A quanto pare perfino forzando storicamente epica ed eroismo del protagonista, tal Newton Knight (interpretato dallo smagrito e furente Matthew McConaughey) è stato una sorta di rivoluzionario agitatore di popolo, sia di contadini bianchi che di schiavi di colore, tra il 1862 e il 1876 a sud est dello stato del Mississippi, proprio nella contea di Jones a cui si rifà titolo e nucleo del discorso filmico.
Disertata da crocerossino/soldato la terrificante trincea unionista con il nipote adolescente ucciso tra le sue braccia, in mezzo a truppe votate al massacro e infermerie zeppe di arti segati, Knight torna a casa quando fattorie, animali e raccolto di parenti e povera gente vengono sequestrate delle autorità sudiste, e soprattutto dopo che ai ricchi possidenti latifondisti è stata concessa l’esenzione dal fronte se in possesso di 20 schiavi neri, estendibile ai secondogeniti se il possesso sale a 40. Così Knight prima si nasconde nella palude in compagnia di alcuni schiavi fuggiti delle piantagioni; poi inizia una graduale e persuasiva battaglia armata contro l’esercito del Sud, coinvolgendo disperati contadini a cui viene tolto il raccolto per la causa “nazionale”. Un po’ pastore religioso, un po’ medico improvvisato, un po’ tiratore dal grilletto facile, “Newt” diventa leader di un manipolo di ribelli, bianchi e neri, con donne armate fino ai denti, alla conquista di un paesino, alla ricerca di un appoggio militare delle truppe nordiste (poi rifiutato dal generale Sherman), e al relativo ritorno nella palude per una migliore autodifesa fino alla fine della guerra. Il post ’65, nonostante i proclami di Lincoln, e l’unificazione glorificata dai libri di storia, per Newt, sposatosi con una giovane creola (Gugu Mbatha-Raw), e per i suoi sodali neri inizia un calvario ancor più violento di prima.
Impossibile non rintracciare in questo episodio storico, cinematograficamente ispirato al ribellismo di un Braveheart, sia le rivolte contadine del centro Europa tra il 1524-1526, sia tutto quell’anelito marxista di lettura anticapitalista che proprio dal 1848 in avanti travolse le masse europee e sfociò in episodi di isolamento e autosostentamento politico ed economico come la Comune di Parigi. Individuato un nemico/sfruttatore, il proprietario terriero supportato delle autorità politiche e militari, giocoforza la ribellione armata per sopravvivere. Per Knight e compagni, infatti, battuti colonnelli sudisti e latifondisti, ecco sorgere un problema ancora più grande che si rifà alla falsariga marxiana: la finta democrazia nordista, diritto di voto farsa, striminzite concessioni terriere ai poveri, acuisce ulteriormente la squilibrata situazione socioeconomica di contadini ed “ex schiavi”.
Dalla condizione di sfruttati, insomma, non si scappa, se non ribellandosi e mettendo in gioco la propria vita. Una spinta eroica che si appoggia sulla performance come al solito prima di tutto fisica di McCounaghey. Barba lunga e ricciolina, denti gialli, capelli unti, vistose occhiaie, mani e corpo ossuti, per una incredibile mimesi con il vero Knight, di cui fa rivivere anche una sorta di luccichio febbrile e anarchico nello sguardo. La messa in scena di Ross richiama tutto il precipitato di cinema da guerra civile americana nei suoi più suggestivi squarci scenografici pauperistici, come di vestiario consunto e logoro; mentre l’andamento del racconto (due ore e venti di durata) si stabilizza su un ragionato equilibrio e una chiara evoluzione della storia ritmata tra dialoghi compenetranti e realistici scontri armati. L’avanzamento temporale per tappe storiche significative inerenti alla comunità di ribelli accresce altrettanto gradualmente tensione e suspense per le conseguenze dell’insurrezione, senza però cercare enfatiche scene madri o un climax narrativo vero e proprio. Un po’ forzata appare invece una sfuggente intrusione, solipsisticamente antirazziale, di un salto in avanti del tempo (85 anni dopo) dove in un tribunale del Sud si sta mettendo sotto accusa un discendente di Knight per avere un ottavo di sangue nero, e quindi per invalidargli richieste di diritti civili evidentemente ancora non “maturi” dopo quasi un secolo dalle vicende del bisnonno. Due dati in chiusura: Free state of Jones è stato un mezzo fiasco al box office con 20 milioni di dollari d’incasso a fronte di un budget da 50; mentre la battuta “fresca” dal Tonight Show di Jimmy Fallon riguarda McCounaghey: “Matt è ingrassato 20 chili per il prossimo film Gold mangiando pollo fritto, patatine e bevendo birra. Il regista del film interpellato ha detto ‘Ok, ma nessuno glielo aveva chiesto”.
di Davide Turrini, Il Fatto Quotidiano