La qualità della pubblicità televisiva italiana ha avuto rare figure di creativi di eccellenza ed è contrassegnata da alcuni stilemi ormai incancreniti, del tipo: qualunque profumo non può avere un accompagnamento vocale in italiano, oppure: qualunque automobile vi porta nell’avventura (onirica o meno), nella velocità, in mutevoli paesaggi esotici, sconfinati, suggestivi (mai nelle code interminabili) e contiene, sotto sotto, una certa dose di positiva aggressività. Non parliamo poi della smodata passione degli italiani per i materassi, che imperversano a tutte le ore con banditori dotati di extra decibel vocali (tutti tranne uno) che violentemente contrastano con l’idea del sonno tranquillo e comodissimo, con un invito al ricambio immediato che evidentemente alimenta quei cumuli di vecchi materassi che spesso costellano strade e cassonetti in non pochi centri urbani.
Tuttavia in questi giorni scorrono sui teleschermi, con una certa moderazione, due spot veramente atipici sui quali è necessaria una riflessione. Il primo è definibile come una campagna sociale, purtroppo ormai già drammaticamente persa, ma va dato onore all’estremo tentativo di difesa e riscoperta della lingua italiana, compiuto dalla Treccani con l’iniziativa istituzionale chiamata «Le parole valgono». Spot gradevoli, spiritosi, che invitano a riscoprire (e praticare) la ricchezza della lingua italiana, sconcertando presumibilmente il 99% dei telespettatori con parole come «misoneista» e correlati sinonimi o ironizzando garbatamente sull’inflazionato e quasi ossessivo ricorrere del termine «carino» in qualsiasi possibile contesto, dal contemplativo al relazionale, che altrettanto presumibilmente apparirà del tutto superfluo per quelli che praticano invece il «fichissimo» (sulla cui formazione etimologica nessuno ha mai indagato a fondo per evitare di turbare Hillary Clinton), e quindi una battaglia su un fronte in rotta da decenni.
Il secondo spot è prodotto dal Banco popolare di Bari e presenta varie scene di esultanza: una anziana signora sussurra «tombola!», un calciatore con voce sommessa dice «gol!» buttandosi a scivolo sull’erba del campo, e il tema portante della campagna è «senza fare chiasso siamo cresciuti».
Questi due spot sono un emblema rovesciato dello standard nazionale, per cui in politica come in televisione, nei dibattiti televisivi, come nei non raramente sguaiati spettacoli di intrattenimento o nel commento in diretta delle partite dove quello che si presume sia un giornalista grida GOOOOL! con voce strozzata chiunque segni e forse salta anche sul tavolo, tutti ritengono si debba urlare. Tutto deve essere eccessivo, se no non è vera emozione e, lo confesso, ritengo che una parte degli allenamenti delle squadre di calcio venga svolta a porte chiuse per provare e riprovare le coreografie di salti, rotolamenti, abbracci stratificati, che ormai, drammaticamente, vengono riprodotti anche dai bambini nel campetto sotto casa.
Lo stesso standard nazionale distorto che fa produrre Jobs act, Fertility day, Ape social, a un governo che si dice sia italiano e che dice di voler comunicare coi cittadini. Pochi ricordano con che supponente ironia fu commentata la scelta normativa della Francia di bandire per quanto possibile, l’uso di termini non francofoni nella terminologia ufficiale e quotidiana, per cui i francesi non acquistano un computer ma un «calcolateur», anche se con l’iPhone non c’è scelta. E proprio questa è la differenza tra una lingua (che non è solo forma espressiva, ma storia, memoria, cuore di un popolo e di un territorio vitale) che vuole restare viva, ed una che si avvia alla confluenza del vasto fiume delle lingue morte, o almeno malate assai.
Quindi, queste due campagne pubblicitarie forse non avranno l’ascolto che meritano, ma se almeno un pochino facessero meditare, come si suol dire, «il colto pubblico e l’inclita guarnigione» potrebbero gettare un seme di ricivilizzazione culturale, comportamentale e, magari, governativa. E Dio sa quanto ce ne sia bisogno.
di Serena Gana Cavallo, ItaliaOggi