Il nostro cinema è esile: non bastano i tocchi d’autore. Deludono anche le ragazze in viaggio di «Questi giorni» diretto da Giuseppe Piccioni
Un verdetto la Mostra l’ha già dato, in anticipo sui Leoni: il cinema nazionale non ha superato gli esami. Troppo esile, troppo fragile, troppo narciso. L’ultima conferma è venuta da Questi giorni, terzo titolo italiano presentato in concorso ed ennesima conferma della fragilità di un regista che sa usare il tratteggio per le psicologie dei suoi personaggi ma non sa mai spingerli verso i chiaroscuri cui il cinema ambirebbe. Qui si racconta di tre amiche ventenni che accompagnano la quarta decisa a fare la cameriera a Belgrado. E la sua voglia di tagliare i ponti con tutto diventa il pretesto che offre alle altre la possibilità di rallentare tre destini che sembrano già scritti: chi si è scoperta un tumore (e l’impossibilità dell’amore col professore universitario), chi ha una gravidanza non proprio voluta, chi un fidanzato e una famiglia problematici. Ma quello che sappiamo all’inizio non evolve mai, ognuna resta il simbolo di se stessa, sempre uguale e sempre prevedibile. E l’entrata in scena della madre della malata (Margherita Buy) e dell’affascinante professore (Filippo Timi) invece di arricchire il film lo sfrangia ancora di più, in una sottotrama di cui non si sente la necessità. Anche perché non porta a niente. Piccioni gira intorno alle sue quattro ragazze, costringendole a non cambiare mai tono (specie l’aspirante cameriera. Eternamente ingrugnita), si concede qualche tocco «d’autore» ma alla fine resta prigioniero di un cinema esangue.
Ecco questa incapacità — paura? — di usare delle proprie idee (o di quelle degli sceneggiatori) per offrire ai propri film la verità e l’originalità che tutti vorremmo, sembra aver contagiato molti dei registi italiani qui a Venezia. Kim Rossi Stuart sogna un film sulla doppia impasse che può colpire un attore, quella artistica e quella privata, epperò nel suo Tommaso (fuori concorso) finisce per ripetere sempre le stesse battute e le stesse scelte, inchiodando il film a un’inutile coazione a ripetere. Edoardo De Angelis con Indivisibili (Giornate degli autori) incrocia i sogni di due gemelle siamesi con un mondo che sembra capace solo di sfruttarle, ma per mandare avanti il film sceglie la strada dell’eccesso (il ridondante bordello galleggiante) e perde di vista la lucidità cui voleva ispirarsi. Invece a La ragazza del mondo (ancora Giornate degli Autori) di Marco Danieli manca il coraggio della coerenza: dopo aver trovato un tema inedito e affascinante — la rigidità insospettata dei testimoni di Geova — abbandona quel mondo per rifugiarsi in un universo derivativo (una Gomorra all’amatriciana), più scontato perché più di moda. Un po’ l’opposto di quello che fa Irene Dionisio in Le ultime cose (Settimana della critica), dove la vaghezza che avvolge i destini dei personaggi che ruotano attorno a un banco di pegni finisce per rivelare una mancanza di fiducia nel cinema come sguardo sulla realtà, un’ammissione di impotenza che si vorrebbe spacciare per «modernità» e invece è solo una resa alle vacuità dei nouveaux cinephiles.
Chi sceglie il documentario sembra avere una strada più facile: l’argomento diventa il messaggio, come nel sorprendente Liberami di Federica Di Giacomo (Orizzonti; sulla diffusione delle pratiche di esorcismo a Palermo) e in Robinù di Michele Santoro (Cinema nel Giardino; sul destino segnato dei baby boss della camorra) dove la forza del reale finisce per imporre al cinema un percorso più diretto per arrivare allo spettatore. E che permette al Michele Vannucci di Il più grande sogno (Orizzonti; la redenzione di un ex carcerato) di riscattare una materia a rischio retorica.
il Corriere della Sera