LUHRMANN E IL SERIAL SUGLI ANNI 70 «PORTO IN TV LA RIVOLUZIONE HIP HOP»

LUHRMANN E IL SERIAL SUGLI ANNI 70 «PORTO IN TV LA RIVOLUZIONE HIP HOP»

Il regista della nuova produzione Netflix: «Un progetto lungo dieci anni. Ho voluto esaltare la creatività che può nascere anche da quartieri degradati»

Baz LuhrmannNon ci sono i fasti eleganti del Grande Gatsby, ma le ultime luci stroboscopiche della disco music. Non ci sono gli spazi sterminati di Australia, ma il Bronx claustrofobico della fine degli Anni 70. Non c’è la spettacolarità di Moulin Rouge!, ma la magia di una forma d’arte -—l’hip hop -—che sta per nascere. E poi c’è l’amore, diverso ma neanche troppo da quello raccontato in Romeo + Giulietta. C’è tutto il migliore Baz Luhrmann in «The Get Down», nuova serie di Netflix da lui pensata, scritta e diretta (il primo episodio). Il racconto inizia nel 1977, quando nelle periferie più violente di New York i ragazzi afroamericani davano vita a un genere musicale destinato a diventare tra i più influenti. Allora il termine hip hop non esisteva. Per provare a codificare quello strano tipo di musica che ancora non apparteneva a nessuna categoria si diceva «The Get Down», perché così era chiamata la parte di ogni canzone in cui suonavano meno strumenti, di solito solo la batteria. Un tappeto musicale che è poi diventata la base del rap.
Ma come mai raccontare proprio quel periodo?
«Ci pensavo da almeno dieci anni —racconta il regista—. Ma più che l’aspetto musicale, comunque interessantissimo, mi domandavo come fosse possibile che in quel periodo storico, in una sola città, nelle sue parti più degradate, emergesse tanta creatività. Da dove usciva? Così ho iniziato a documentarmi e a mettermi in contatto con chi ha vissuto quel cambiamento. Erano ragazzi immersi in una grande povertà, circondati da stimoli negativi. Eppure poi sono riusciti a fare qualcosa di tanto positivo. Lo trovo incredibile».
Un po’ la storia del fiore che nasce dal cemento, no?
«Esattamente. Quei giovani, circondati dalla violenza, sono riusciti con l’arte a creare qualcosa di speciale. Da dove usciva la loro forza? Domandandomi questo l’intero progetto ha iniziato a svilupparsi. Ho cercato le risposte».
È il suo primo lavoro in tv, che effetto le ha fatto?
«In realtà ne parlo non come se fosse televisione ma un film vero e proprio, lungo dodici ore (perché dodici sono gli episodi). E lo faccio per come è stato trattato da tutti il progetto».
Stephen King ha detto che viviamo nell’epoca d’oro della tv…
«Sono d’accordo. La tv vuole essere competitiva con il cinema ormai. Dirò di più: non avrei mai avuto le stesse disponibilità finanziare se avessi dovuto fare un film. E non avrei mai avuto nemmeno il via libera per avere come protagonisti sei attori afroamericani semisconosciuti. Qui quello che è contato è stato il tema della serie: poi si è cercato di svilupparlo nel migliore dei modi. Siamo senza dubbio nell’epoca d’oro della tv».
Ha detto che non sarebbe stato facile convincere ad avere sei afroamericani protagonisti di un film. Cosa pensa della polemica portata avanti da Spike Lee perché i neri siano tenuti più in considerazione a Hollywood?
«Credo che abbia ragione. Funziona tutto così nell’industria del cinema e il motivo è che, quando si parla di Hollywood, in qualche modo si parla di un club. E questo problema lo hanno anche le donne».
Lei sembra un ottimista. Nella serie racconta come le persone abbiano il potere di cambiare il loro destino…
«È una cosa in cui credo. Capita di essere travolti dalla propria vita, ma ho visto persone decidere di perderne il controllo e riuscire a cambiarla. Del resto siamo i soli che possiamo fare qualcosa perché le nostre esistenze si modifichino. O almeno provarci».
«The Get Down» lo racconta, no?
«Si, racconta esattamente questo. Era già stato scritto molto su quegli anni, ma alla fine sempre le stesse cose: si, c’era la violenza, si, c’erano i problemi, si c’erano le droghe. Ma c’erano anche alcune persone che in quel contesto riuscivano a vedere delle opportunità. Paradossale. Ma bisogna non perdere la speranza».

Corriere della Sera

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