Antonacci si racconta in cinque serate dal vivo tra Milano e Roma: «Vivevo la televisione come un limite, ma non puoi nascondere l’immagine»
Il rumore del backstage. Le confessioni, le parole nascoste tra le righe delle canzoni. La storia è quella di Biagio Antonacci. «Il primo esperimento per entrare in punta di piedi in tv: in futuro mi piacerebbe avere un programma tutto mio». Premessa: Biagio Antonacci, 52 anni, geometra e batterista mancato, milanese (di periferia). Scoperto da Ron, quando faceva il carabiniere a Garlasco. Diventato grande grazie a Dalla che gli cucì addosso il mantello di cantautore da 7 milioni di dischi venduti. Per Biagio è arrivato il momento di calare la carta televisiva. Con uno show «dinamico», come lo definisce lui. Anzi cinque, tra il 7 e il 17 settembre. Tra Forum d’Assago e Palalottomatica di Roma. Da cui verrà estratta una prima serata su Canale 5. In scaletta canzoni, ma anche momenti di racconto per celebrare la sua storia musicale. La grande novità, per chi è abituato a vederlo su una passerella a tiro d’abbraccio, saranno le scenografie. Un palco proiettato nella tribuna: performer e musicisti che si muovono su piani inclinati. Prospettive ribaltate per il Biagio minimalista del pop che ci avevano consegnato gli ultimi trent’anni. Schermi, proiezioni. E ospiti: gli amici di una vita.
Sta nascendo un nuovo Antonacci?
«In passato ho sempre tenuto in disparte l’elemento televisivo, lo vivevo come un limite. Ma oggi noi artisti viviamo il bisogno di raccontarci al pubblico».
Lei fa parte di una generazione nata senza la stampella televisiva.
«Non puoi più permetterti di nascondere la tua immagine. Colpa o merito della macchina maledetta e benedetta dei social. Non puoi rinunciare a comunicare».
Forse non arrivano più in modo così diretto i messaggi delle canzoni.
«I brani non devono essere slogan, devono durare. Se il testo non arriva, non bisogna aver paura di raccontarsi in altri modi, nella vita di tutti i giorni».
Per lei qual è la difficoltà maggiore?
«Sono istintivo, faccio fatica a riflettere sulle cose. Per questo show sto costruendo un racconto ragionato di me stesso. Un po’ come se fosse teatro».
Se dovesse riassumere la sua carriera in tre brani?
«Partirei dall’amore soffocato de “La stanza rosa”. Poi la preghiera a un dio che non capisco di “Liberatemi”. E l’ansia del farsi troppe domande di “Iris”».
In queste settimane in radio suona «One Day», la versione rock del brano scritto con Pino Daniele: il suo ultimo lavoro prima di morire.
«Ho inseguito l’amicizia di Pino da quando avevo 15 anni. Sognavo di diventare come lui. Ero un giovane batterista e impazzivo per il suo essere cantautore musicista. Al primo incontro gli dissi che era il mio maestro».
Come è nata «One Day»?
«Una sera a cena, a Roma a casa sua. Mi chiese di fargli sentire qualcosa di nuovo. Gli canticchiai una melodia che avevo in testa, lui prese chitarra e penna. Una serie di frasi buttate lì, ma che suonavano bene».
Non siete mai riuscita a suonarla insieme.
«Appena prima di lasciarci venne con il figlio a un mio concerto. Mi fece i complimenti per lo show, c’eravamo ripromessi di farla insieme appena possibile».
Cosa succederà dopo l’estate?
«Torno a lavorare al nuovo album: ho una ventina di brani già pronti. Ma stavolta preferisco prendermi un po’ di tempo, il disco non uscirà prima dell’estate prossima. Sto già pensando al prossimo tour: una serie di concerti intimi. Voglio tornare a essere produttore di me stesso, organizzando ogni dettaglio. Lavorando con i giovani: il pop ha bisogno di energie nuove».
Corriere della Sera