La scomparsa di un ragazzino nella tranquilla cittadina di provincia di Hawkinss innescherà una serie di dinamiche narrative che ripercorrono gli stilemi del genere horror e soprannaturale del cinema americano. Una serie piena di omaggi a grandi maestri del passato e riferimenti alla cultura pop
Prendete un po’ di Stephen King, aggiungete un pizzico di John Carpenter, una spruzzata di Steven Spielberg, due o tre gocce di Goonies e guarnite con una manciata di riferimenti pop anni Ottanta. Il risultato sarà Stranger Things, nuova serie targata Netflix, la cui prima stagione è disponibile in tutto il mondo dal 15 luglio. È una delle cose migliori che vi capiterà di guardare quest’anno, quindi, se siete abbonati a Netflix, non perdete tempo e tuffatevi nel bingewatching selvaggio.
L’ambientazione, poi, è la ciliegina su una torta gustosissima: siamo agli inizi degli anni Ottanta e tutta la serie è impreziosita da riferimenti musicali, politici, di cultura pop che hanno caratterizzato quel periodo. Ci sono i Clash, c’è Ronald Reagan, ci sono i walkie-talkie e le bici con il sellino allungato, c’è una provincia americana sonnacchiosa sospesa tra i temi globali della Guerra Fredda con la Russia e gli effetti locali, anzi persino personali, di un disimpegno totale tipico degli anni Ottanta, che aveva provocato uno scollamento evidente all’interno della società occidentale. I ragazzini protagonisti della vicenda ricordano i Goonies (il cult del 1985 firmato da Steven Spielberg, Chris Columbus e Richard Donner), mentre il “mostro” con cui dovranno confrontarsi i personaggi della serie sembra arrivare direttamente da un film horror degli anni Cinquanta.
Ma Stranger Things funziona assai anche per un altro motivo fondamentale: la presenza di una Winona Ryder finalmente tornata agli altissimi standard recitativi di un tempo. Una delle migliori attrici della sua generazione, che si era persa tra mutande rubate e ossicodone, ritorna alla grande con una prova d’attrice più che convincente nei panni della madre del ragazzino scomparso. La Ryder offre agli spettatori una interpretazione di rara intensità, venata di follia e disperazione. Una interpretazione credibile, passionale e appassionata, quasi a voler riversare in questo progetto tutto il talento che per troppi anni non era più riuscita a dimostrare. Il valore aggiunto di Stranger Things, che già funziona benissimo, è proprio lei. La serie firmata dai fratelli Duffer si inserisce appieno nel filone della nostalgia, in quell’operazione sempre più frequente che prova a stuzzicare i nostri ricordi, a richiamare sensazioni ed emozioni che ci mancano terribilmente, a giocare con la nostra voglia di tornare indietro nel tempo, di abbandonare, anche se per finta e per il tempo di otto episodi da 50 minuti ciascuno, questi tempi balordi e rifugiarci negli anni in cui eravamo piccoli e spensierati, immersi fino al collo nell’edonismo reaganiano, quando la nostra massima preoccupazione era risolvere il cubo di Rubik.
Nelle ultime settimane l’operazione nostalgia è tornata assai di moda: prima con Pokemon Go (anni Novanta), poi con l’annuncio del ritorno della prima console Nintendo (pieni anni Ottanta). Chissà, forse è segno che il presente fa davvero così schifo, oppure la nostalgia è semplicemente un fatto ciclico, che torna sempre, a ogni generazione, per la serie “ai miei tempi…”. Ma Stranger Things non è solo un continuo omaggio al passato. È anche, e soprattutto, un’ottima serie televisiva, una sapiente miscela di commedia, horror, dramma, con gli ingredienti tipici di questi generi che si incontrano e si scontrano sullo sfondo di una provincia americana altrettanto tipica nel cinema a stelle e strisce: il liceo, i ragazzi popolari, i “losers”, la famiglia borghese da sobborgo ma anche quella disastrata con mamma single, muri cadenti e problemi esistenziali. È la società americana degli Eighties (ma in fondo anche di oggi) che trova nell’evento drammatico, nell’elemento fantastico o horror, il pretesto per raccontare se stessa. Non c’è dubbio: Stranger Things non si può proprio perdere. Soprattutto se avete tra i 35 e i 40 anni, se vi manca terribilmente la vostra infanzia, se Stephen King e Steven Spielberg sono tra i vostri riferimenti e sono in parte responsabili di quello che siete diventati.
Domenico Naso, Il Fatto Quotidiano