In tre ore la star celebra il disco «The River». E a 66 anni conferma di non voler invecchiare
Sono state sufficienti due note dell’introduzione di Morricone (da C’era una volta il West) per far esplodere lo stadio. Immaginatevi poi quando è arrivato sul palco, lui in jeans e maglietta, la chitarra a tracolla e 66 anni sulle spalle: una ovazione come ormai se ne vedono poche. Springsteen a San Siro è un evento a se stante, e non c’entra tanto la scaletta, stavolta riservata quasi esclusivamente al disco The River del 1980. C’entra il rapporto che questo musicista inimitabile ha creato con il pubblico italiano, che lo ama perché vede in lui la più italiana delle rockstar. Non a caso, quando il concerto si è aperto con Land of hope and dreams, non certo uno dei suoi successi più popolari, tutti i sessantamila di San Siro l’hanno cantata in coro senza sbagliarne una virgola (qualche fortunato si era già goduto una Growin’ up acustica durante un soundcheck improvvisato). “Milanoooo fa troppo caldo?? Andiamo”, ha urlato il Boss (ma non chiamatelo così perché si arrabbia) poco prima di scendere in mezzo alla folla a stringere mani in uno stadio favoloso che lo aspettava con una gigantesca scritta da curva a curva: “Dreams are alive tonight”, “I sogni sono vivi stasera”. Roba d’altri tempi. E in effetti la ritualità degli show di Springsteen è giocoforza legata a un passato che sembra sempre più passato: il legame quasi spirituale tra artista e pubblico, un vincolo che obbliga tutti, sopra e sotto al palco, a non tradire le attese.
E così la E Street Band, o ciò che ne resta, suona come poche altre, con un Steve Van Zandt che è precisissimo ma tradisce il suo soprannome, Little Steven, perché è un po’ sovrappeso. Ma poco importa. In tre ore e mezza Springsteen si sposa con il proprio pubblico, ogni volta come se fosse la prima, e ci sarebbe da chiedersi come e dove questa superstar miliardaria trovi ancora questa energia spontanea e abbia voglia di girare il mondo suonando 3 o 4 ore a sera senza aver bisogno di far cassa (ha già incassato oltre ogni immaginazione) ma soltanto per il bisogno primitivo di scambiarsi emozioni con il pubblico. Già, oggi sembra quasi impossibile visto che persino i concerti sono regolati dall’algebra della promozione e della visibilità. Stavolta no. E questi due concerti a San Siro (replica domani) e al Circo Massimo di Roma il 16 sono il vezzo autentico di uno dei più grandi rocker di tutti i tempi: suonare in libertà, fregandosene di chi lo ritiene un reperto del passato. Dopotutto, lui non annuncia il titolo di un brano, suona e canta e basta. Come ai vecchi tempi. L’album The River è stato pubblicato 36 anni fa e da allora i suoi concerti durano almeno tre ore, sono stati migliaia in tutto il mondo ma quello di ieri sera a San Siro sembrava essere il primo. A tradire le fantasie erano le rughe e il girovita. Ma l’energia era la stessa, e forse è un miracolo rock. Perciò mentre lui cambiava chitarre e annunciava i brani con il solo, semplice one two three four, a San Siro è andato in scena il più puro degli spettacoli rock. Non a caso Ligabue e Zucchero sono arrivati a goderselo. E non a caso il pubblico è tornato a casa sfinito e sorridente dopo tre ore e passa di musica born to run, nata per correre ma senza avere una meta diversa dal divertimento vecchio stile, quello che si gode dopo una giornata di lavoro dimenticandosi di tutto il resto. Insomma l’America vecchio stile che, concerto dopo concerto, sembra sempre più nuova.
Il Giornale