Arriva in sala ‘Il piano di Maggie’, commedia divertente sulla trentenne Gerwig che decide di diventare madre grazie all’inseminazione artificiale. Protagonisti, anche Julianne Moore ed Ethan Hawk
Greta Celeste Gerwig è l’emblema delle ragazze newyorkesi contemporanee, pur essendo nata a Sacramento, California. La commediografa, attrice e regista trentaduenne, attraente all’occorrenza ma senza necessità di esserlo, è la nuova musa del cinema indie grazie a una serie di personaggi di donne fragili, goffe eppure profondamente indipendenti. È stata la perfetta insicura in Lo stravagante mondo di Greenberg, ha ballato in strada in Frances H, si è trasformata nell’emblema delle nevrotiche in Mistress America. Ora è brillantissima nel delizioso Il piano di Maggie, firmato da Rebecca Miller, con Julianne Moore ed Ethan Hawk. Il film, appena arrivato in sala racconta di una trentenne, Gerwig, che dopo una teoria di brevi e disastrosi fidanzamenti “nessuno resiste più di sei mesi”, decide di diventare madre grazie all’inseminazione artificiale. Si fa aiutare da un amico, ma proprio per una serie di coincidenze proprio in coincidenza con il concepimento ecco arrivare all’orizzonte un professore universitario e scrittore frustrato che sembra l’anima gemella e che lascia all’istante la professoressa danese con cui è infelicemente sposato (una strepitosa Julianne Moore) e figli per la nostra. Ma il rapporto di coppia non è fatto per Maggie, che pur rimanere fedele a se stessa decide di escogitare un altro dei suoi piani, destinato anche stavolta a fare i conti con il destino.
Cosa pensa del piano, anzi dei piani di Maggie?
“Di avere un bimbo per conto proprio? Beh penso che può essere un’ottima decisione. Ho un’amica che lo ha già fatto due volte. È capitato in un momento della sua vita in cui era finito il suo matrimonio, era a metà dei trent’anni e ha pensato: voglio figli e questo è il momento. È stata una decisione molto meditata la sua ed è riuscita a gestirlo perfettamente. Riguardo al secondo piano, quello di far tornare il suo compagno dalla ex moglie, beh, lei lo fa solo perché si rende conto che in realtà i due sono ancora innamorati l’uno dell’altra. Comprende che tra loro c’è stato un grande sentimento ma che al momento sono gli altri due ad essere fatti l’uno per l’altro. E credo che quei due personaggi, anche se il finale è aperto, hanno davvero la possibilità di ritrovare un futuro insieme”.
Nella vita lei è una commediografa, il suo compagno è il regista Noah Baumbach. Quanto pesca dal suo vissuto?
“Parecchio direi. Il mio compagno è uno scrittore e così molti miei amici. Capita di testare le tue battute durante una serata di chiacchiere, migliorarla. E comunque molto nasce dall’osservazione di chi mi sta intorno, materiale utilissimo da trasferire nei personaggi. Mi è capitato di gente che si è riconosciuta in alcuni tratti, alcuni tic e si è arrabbiata. All’inizio ci resti male ma poi cerchi di evitare cose troppo riconoscibili”.
Come in molti suoi film c’è una scena in cui danza.
“Sì, non so perché ma me lo chiedono tutti i registi. Forse perchè adoro danzare nei film, forse c’entra il fatto che avrei voluto fare la ballerina. Ma da adolescente ho capito che non avevo il corpo adatto. Così ho iniziato a scrivere. Al college ha studiato filosofia, letteratura, cinema e teatro. Non sapevo se diventare filosofa, scrittrice o attrice”.
Stare in coppia con un collega non significa non smettere mai di lavorare?
“In effetti è così, non c’è soluzione di continuità. Ma io sono sempre avuto fidanzamenti a lungo termine con colleghi, è anche un modo per avere sempre molto di cui discutere insieme, molti argomenti in comune. Si parla di quel che leggi, o hai visto. La cosa migliore del cinema è che mette insieme tante forme artistiche, musica, ballo, scrittura. È divertente lavorare, imparare, guardare insieme un film e discuterlo secondo una diversa prospettiva, usare un linguaggio diverso per raccontare la stessa cosa… fantastico. Discutere solo per fare una scena intorno a un tavolo, guardare le scene di altri film, capire dove mettere la camera…non so mi piace lavorare in questo modo”.
Lei è diventata l’icona della newyorkese contemporanea. Ha fatto un film ambientato negli anni Settanta per cambiare registro?
“La verità è che il confine più grande nei ruoli che ti vengono offerti dipende dal genere a cui appartieni, e anche dal poco che c’è in circolazione. Ho avuto la fortuna di fare questo film con Rebecca Miller, poi uno girato negli anni Settanta, e uno nei Sessanta. Mi sento fortunata ad avere avuto tutte queste possibilità, e mi è piaciuto da morire uscire fuori da New York e dalla contemporaneità. Ma la verità è che io non ho nessun controllo nella mia carriera. Spero a quarant’anni di interpretare ruoli da quarantenne, sempre che me ne vengano offerti, sapete come funzione a Hollywood. Non voglio preoccuparmi se non di lavorare con registi che mi piacciono. E finché la mia situazione finanziaria me lo consente rifiuto cose brutte. Ma per il resto non ho preconcetti. Alcune colleghe mi raccontano “io rifiuto ruoli da prostituta di nuovo”. Beh penso che invece puoi recitare di nuovo la parte della prostituta se te lo chiede Paul Thomas Anderson. Bisogna lavorare con grandi artisti. Questa è la mia guida. Io so di avere moltissime sfumature dentro. A volte mi capita di registi che mi dicono “non sapevo che fossi capace anche di questo”. Ma è solo perché non mi era stato chiesto prima di farlo. L’importante è che tu sappia chi sei e di cosa sei capace, indipendentemente dalla percezione che gli altri hanno di te”.
A proposito della percezione che gli altri hanno di lei, siamo abituati a vederla con lunghi capelli biondi, ora ha un caschetto rosso cortissimo…
“È incredibile come la presentazione che dai di te stesso influenza il modo in cui gli altri ti percepiscono. Bizzarro. Ho sempre pensato che la gente fosse in grado di andare oltre la superficialità dell’immagine e invece il modo in cui appari per molti corrisponde a ciò che sei. E’ interessante quando ti trovi in un altro luogo, con un’altra immagine. L’ho sperimentato grazie a questo caschetto rosso. E anche per questo quando mi hanno ingaggiato per il film Jackie di Pablo Larrain, sulla storia di Jackie Kennedy e mi hanno detto che avrei indossato una parrucca ho fatto un salto di gioia: “Perfetto, lo voglio fare. La verità è che uno dei motivi per cui vuoi fare l’attrice è la sciocca gioia che provi nel giocare a travestirti, diventando un’altra persona”.
Come vive la celebrità?
“Beh veramente spesso non mi riconoscono. Non è che ho fatto kolossal e saghe. E quando sono a New Yor e mi riconoscono sono davvero gentili e carini nei miei confronti. Sono dolci, non bizzarri. Ma io evito tutto quello che porta troppa fama, non potrei attraversare una stanza in cui tutti stanno parlando di me. Quel tipo di esposizione non fa per me. Anche se certo quando sono al bar sotto casa e il barista non mi riconosce rimpiango di non avere un po’ di fama”.
Mai tentata di girare un film come Star Wars?
“Non credo che mi offriranno mai un ruolo in quella saga, anche se uno dei miei più cari amici, Adam Driver, ci è finito dentro. E penso che sarei una pessima Donna Ragno”.
Il suo personaggio, Maggie, dice a un certo punto: “Sono stanca di essere me”. A lei è capitato?
“Mi piace la vita e la gente. Ma certo a volta la vita sa essere noiosa: perché ho sempre gli stessi problemi? Perché le cose non cambiano? Specie se scrivi o sei un attore, o comunque fai una attività creativa, devi passare molto tempo con te stesso e la cosa può essere molto complicata. Tu sai cosa è vero e cosa è falso, quando non hai fatto quel che dovevi, quando non è abbastanza. Ti conosci troppo. Proprio per questo mi piace di fare film, perché la scrittura è solitaria, invece il cinema è un gioco di squadra”.
Che effetto le fa rivedere la propria immagine sullo schermo?
“Ho iniziato a fare film, a girarli e montarli anche solo per imparae molto presto. Perciò ho imparato ad essere oggettiva con la mia immagine. Non ho molta vanità, come attrice e come donna. Mi interessa raccontare la storia. Ma trovarsi a confronto con la propria faccia di continuo è impegnativo. Da qusto punto di vista il teatro è molto più piacevole. Perché non devi avere a che fare con la tua faccia, ogni sera c’è lo show, e dopo lo spettacolo beh, è andata”.
Arianna Finos, La Repubblica