Si approssima la fine di maggio e nelle tv da tempo si guarda ai palinsesti dell’autunno valutando i singoli titoli (cosa conservare e cosa no?) e talvolta la stessa struttura dell’offerta. In Rai il tema centrale è proprio quello della struttura perché la lottizzazione si è espressa in passato imponendo il numero delle reti, quello dei tg, quello dei talk show. Sicché un’azienda che fosse stata autonoma e responsabilizzata non avrebbe mai adottato la struttura dei palinsesti che la Rai oggi si ritrova così e la Rai non potrà ritrovarsi se non la cambierà davvero. Aggiungi che quella d’autunno sarà comunque la prima manifestazione “editoriale” della nuova dirigenza (che finora ha lavorato – né era possibile diversamente – sui lasciti di quella precedente).
Qualcuno si appassiona alla materia anche da fuori, come ieri Pierluigi Battista, che sul Corriere della Sera in genere ragiona sulle questioni cruciali; e che stavolta si è occupato dell’uso del canone.
Battista prende i le mosse dal tema della legittimazione del Servizio Pubblico. Legittimazione ardua, finché il canone è usato in modo da distorcere la concorrenza (che nella comunicazione è tutto) giacché i privati non ne godono mentre la Rai si alimenta anche di pubblicità. Però il Nostro, dopo aver sfiorato il punto strategico, arriva al cuore e, sostanzialmente, mette le mani avanti verso la minaccia che Giannini e Porro lascino il passo. E così intuiamo che se i due restassero al loro posto, la famosa legittimazione sarebbe salva e la distorsione del mercato diverrebbe quella scappatella tra amiconi che è stata per trenta e passa anni.
Intendiamoci, ad ogni volger di stagione fioriscono sulla stampa articoli amicali di appoggio a questo o quello che aspirano a tenersi il loro pezzo di video. Ma oggi a guardare alla Rai con questo occhio da amici degli amici si rischia o di sembrar ridicoli o di fare danni gravi. Per esempio perché, indipendentemente da chi li conduce, la Rai è palesemente oppressa dai troppi talk show e una bella sfrondata al loro numero (e alla loro durata) sarebbe quello sì un grande segno di nuova vitalità.
Certo che se tutto restasse com’è e soltanto cambiassero le facce dei conduttori, allora sì che ci cadrebbero le braccia. Non soltanto perché ci si è seccata la penna a forza di dire e dimostrare che i guai della industria culturale italiana, a paragone con l’Europa e il mondo intero, derivano in enorme misura dall’assetto sparagnino di palinsesti moltiplicati e inzeppati di chiacchiere. Ma anche perché dovremmo ammettere che avrebbe avuto ragione Battista a non vedere e a non volere cambiamenti dei vecchi andazzi piuttosto che noi a continuare a sperarli.