In principio c’era il cinema, poi è arrivata Shonda Rhimes con le sue serie (Grey’s Anatomy, Scandal) e il piccolo schermo non è stato più lo stesso. Oggi cresce tre figlie da sola ed è anche riuscita a dimagrire. Tutto merito di una parolina
Shonda è potente, Shonda ha ideato tre serie televisive in onda sulla Abc negli Stati Uniti e in tutto il mondo, Shonda appoggia Hillary Clinton in uno spot insieme alle interpreti dei suoi telefilm: Ellen Pompeo di Grey’s Anatomy, Kerry Washington di Scandal, Viola Davis delle Regole del delitto perfetto. Shonda era molto grassa ed è riuscita a dimagrire, Shonda da ragazzina era una secchiona timidissima, Shonda ha creato un universo di personaggi e temi che, quando si analizzeranno gli anni Obama, saranno lì a dimostrare quanto l’America sia cambiata nell’ultimo decennio, quanto il dibattito su razza, diversità, scelte amorose si sia trasformato. Shonda è una influencer, Shonda è una megalomane giustificata e ha chiamato la sua casa di produzione ShondaLand, Shonda è madre single di tre bambine. Shonda Lynn Rhimes, nata a Chicago il 13 gennaio 1970, è la Wonder Woman del nostro tempo.
Ha anche scritto un libro, appena pubblicato in Italia da Rizzoli: L’anno del sì – Non avere paura, vivi con gioia e diventa la tua persona. Un po’ autobiografia (buona borghesia liberal afro-americana, famiglia numerosa e unitissima), un po’ manuale di auto-aiuto e un po’ backstage di cose di televisione.
Il libro inizia con Shonda che lava il sedano in preparazione del pranzo del Giorno del Ringraziamento, assieme a sua sorella. Shonda le racconta di inviti che ha ricevuto (a parlare in pubblico, a partecipare a eventi, a essere intervistata). Tutti rifiutati, come d’abitudine. La sorella commenta: «Non dici mai sì a niente». Da quel momento Wonder Shonda si mette in discussione: per un anno dirà di sì a tutto. Affronterà le sue paure e se ne libererà, insieme ai chili di troppo e a un mucchio di altre fissazioni. Al termine di questo ciclo, più o meno, Cristina Yang, la dottoressa interpretata da Sandra Oh in Grey’s Anatomy, lascia la serie. Non è un caso.
Alla fine dell’anno del sì, Sandra Oh le ha domandato: «Che cosa facevi prima, quando volevi dire qualcosa ma avevi troppa paura per farlo?». «Lo dicevi tu per me», è stata la risposta. Quindi: addio Cristina, benvenuta Shonda, finalmente diventata la «sua» persona.
Ho intervistato Shonda al telefono. Parla alla svelta, senza esitazioni o fronzoli. Un po’ come le sue eroine: Cristina Yang, ma anche Olivia Pope di Scandal e Annalise Keating delle Regole del delitto perfetto.
In un discorso rivolto agli studenti durante il suo «anno del sì», lei li invita a fare le cose e non limitarsi a sognarle, aspettando la mitica grande occasione.
«L’unico modo per ottenere dei risultati è lavorare. Se qualcosa ti ferma, vai avanti lo stesso».
In passato ha sofferto di gravi attacchi di panico. La invitavano in tivù e fantasticava di dichiararsi malata, di avere la peste. Come si fa ad andare avanti cosi?
«Se mi avesse chiesto due anni fa se pensavo di uscirne, le avrei detto, impossibile, questa cosa non cambierà mai. Oggi so che nemmeno gli attacchi di panico sono imbattibili».
È molto attiva su Twitter ma avverte: «Un hashtag non è un movimento».
«Lo scopo e il modo di usare i social media è diverso per diversi tipi di persone. Per quelli come me sono un mezzo di comunicazione, per diffondere prodotti televisivi. Per qualcuno che vive in un paesello sperduto dell’Ohio sono un modo per essere informati e connessi con il resto del mondo, per un popolo che vive in un Paese senza libertà d’opinione, ecco, lì sì, forse, possono diventare lo strumento di un movimento».
Lei ha contribuito a fare di alcuni attori dei veri sex symbol globali. Penso a Patrick Dempsey, per esempio. Ma aveva dei poster in camera, da ragazzina?
«Ai miei tempi Andrew McCarthy era considerato il più carino dell’universo, anche se io non ero il tipo che fantasticava sugli attori. Ero troppo presa dai libri, dai compiti, dal mio inventare storie tutte per me».
E oggi? Non ha un sex symbol di riferimento?
«Mi piace molto Idris Elba!».
Nel suo libro spiega molto bene la mentalità del workaholic, il malato di lavoro. Nell’anno del sì, ha deciso di imporsi delle regole: a casa alle sei, niente telefonate o email dopo le sette. Funziona?
«Alla grande. Non è morto nessuno, perché nulla è cosi urgente che non possa aspettare il giorno dopo. Non solo: ho scoperto che se a certe mail si aspetta a rispondere, i problemi si risolvono o si dissolvono da soli».
Secondo lei, sono più gli uomini o le donne destinati a essere workaholic?
«Gli uomini in un certo senso lo sono da sempre, perché hanno anche spesso usato il lavoro come via di fuga da casa, con molte inutili lunghe ore in ufficio. Per le donne è diverso: giocano a rimpiattino con sensi di colpa da una parte e dall’altra. Ma non siamo tutti uguali. In Grey’s Anatomy, la Bailey (il chirurgo soprannominato la Nazista per il suo carattere, ndr) è una donna in carriera con famiglia, felice di questa sua condizione, mentre la Yang è una donna in carriera che non ha intenzione di sposarsi. Non ci sono, non ci dovrebbero essere classifiche, non ci sono o non ci dovrebbero essere giudizi su questo tipo di scelte».
È più felice adesso che è dimagrita?
«Sono più felice perché ho avuto il coraggio di affrontare quello che stava diventando un problema grave e che io evitavo persino di riconoscere come tale. Però la mia negazione nasce anche dal fatto che ho sempre trovato atroce l’ossessione generale per il peso della gente. L’aspetto fisico non ha nulla a che vedere con quello che sei dentro. Il mio femminismo mi ha sempre fatto pensare “prima viene il mio cervello e poi tutto il resto”. Inoltre, mi dicevo, se non avessi tutto questo successo, avrei tempo di andare in palestra. Se non avessi tutto questo lavoro, mangerei cose sane e con calma. Ma erano tutte scuse».
L’anno del sì è servito a fare piazza pulita anche nel reparto rapporti umani. Ha scoperto di essere circondata da falsi amici, cosa prevedibile vista la sua posizione.
«Anche qui, non ero mica Pollyanna! Evidentemente queste relazioni erano funzionali, riempivano dei vuoti, mi facevano comodo perché l’immagine che io avevo di queste persone serviva a me».
Ha deciso di adottare la sua prima figlia dopo l’11 settembre 2001.
«Sì, è stato un momento di svolta, la sensazione che il mondo sarebbe andato a rotoli era palpabile, ho sentito un bisogno profondo di maternità, di dare spazio nella mia vita a qualcosa di davvero importante».
Una decisione che ha ripetuto una seconda volta. E poi una terza, attraverso una madre surrogata. In Italia c’è un enorme dibattito sul tema, non sto a spiegarle i dettagli. Mi dica solo che esperienza è stata per lei, rispetto all’adozione.
«Il modo in cui un bambino entra in una famiglia non fa alcuna differenza».
Prima di Grey’s Anatomy, ha scritto anche per il cinema. Vorrebbe tornare a farlo?
«Mah. Il cinema è diventato un’industria basata sulla paura. Se non incassi 100 milioni di dollari in due giorni, sei morto. Quindi si ripetono sempre le stesse storie. Esclusa una minuscola fetta di cinema indipendente, la creatività è costretta ad adeguarsi a questo tipo di paure».
L’anno del sì nasce come un esperimento a tempo determinato. E adesso?
«Continua. Sono convinta di avere cambiato la mia vita per sempre».
di Paola Jacobbi, Vanity Fair