E’ il sogno americano in carne e ossa, case una donna, malady nera (e sovrappeso), here capace di farsi strada nel mondo di Hollywood grazie alla forza delle sue idee e al duro lavoro; di conciliare la massima realizzazione professionale con la costruzione di una famiglia, peraltro senza giudicare indispensabile la presenza maschile all’interno di quest’ultima
Da qualche parte sulle colline di Los Angeles, a chi è fortunato può capitare di trovare la strada per Shondaland. Non è un paese magico dove le strade sono lastricate d’oro, per carità, solo un mucchio di uffici come tanti altri. Eppure sì, dietro quelle porte scorrono fiumi di denaro, grazie a una regina con il tocco di Mida. Shondaland è il nome della casa di produzione fondata da Shonda Rhimes, 46enne regina della televisione americana. O almeno del racconto seriale, che di quest’ultima rappresenta una fetta importante. Economicamente, ma anche culturalmente: i telefilm made in Hollywood hanno conquistato il mercato mondiale nell’ultimo decennio, con produzioni sempre più raffinate e costose, fino a creare nuovi luoghi comuni. Tipo “la buona scrittura, negli Stati Uniti, si trova in televisione”, o roba del genere. Shonda Rhimes è in parte responsabile di questa rivoluzione minima nella cultura popolare, grazie a quattro serial di enorme successo: Grey’s Anatomy prima di tutti, poi lo spin-off Private Practice, Scandal e Le regole del delitto perfetto. Tre su quattro – Private Practice è finito nel 2013 – occupano la serata del giovedì sul network Abc (proprietà Disney), spazio pregiato all’interno dei palinsesti. Al termine di ogni puntata di quei telefilm – ognuna significa sei, sette milioni di introiti pubblicitari solo negli States – appare il logo del cuore circondato da un ottovolante: Shondaland. Quel nome è in effetti uno dei pochi riconoscimenti con cui la Rhimes abbia pubblicamente coccolato il suo ego. Per il resto, Shonda appare un tipo davvero riservato per gli standard di Hollywood: non ama interviste, apparizioni e discorsi in pubblico. Quasi stupefacente, dunque, che abbia deciso di scrivere un libro sulla sua vita, e l’ultimo anno in particolare. Sarà che il suo atteggiamento è cambiato. Il titolo dice molto: L’anno del sì è effettivamente la storia di come Shonda Rhimes abbia imparato a rispondere sì a tutto ciò che la spaventava, ad affrontare la vita con nuove energie, a migliorare se stessa. Sembra un manuale di auto-aiuto, di quelli di moda in America, impressione confermata dal sottotitolo Non avere paura, vivi con gioia e diventa la tua persona. In realtà si tratta di un diario scritto con gli stessi toni che colorano i suoi personaggi. Il suo è un monologo che assomiglia alla voce fuori campo della dottoressa Meredith Gray. La Rhimes racconta – incredibile ma vero – di essere una donna insoddisfatta. Certo, possiede una casa di produzione ideatrice di successi televisivi storici, ha tre figlie (due adottate, una nata da madre surrogata), molti soldi, molti onori. Eppure rimane una persona introversa, timida, mai in pace con se stessa. Dunque decide di cambiare il suo atteggiamento verso il mondo: i “sì” detti durante l’anno si trasformano in una svolta personale. Dimagrire, superare la paura del parlare in pubblico (anche davanti alle telecamere del Jimmy Kimmel Live, qualche milione di spettatori in tarda serata), perfino rompere con il fidanzato: ecco come cambiare la propria vita, in meglio. Forse i consigli di Shonda non sono immediatamente applicabili all’esistenza di persone normali (e lontane migliaia di chilometri dall’american way of life), ma non importa: il libro è piuttosto divertente per chiunque abbia amato le serie scritte da lei, e rafforza la sua immagine, ormai diventata quasi un cliché. Già. Shonda è il sogno americano in carne e ossa, una donna, nera (e sovrappeso), capace di farsi strada nel mondo di Hollywood grazie alla forza delle sue idee e al duro lavoro; di conciliare la massima realizzazione professionale con la costruzione di una famiglia, peraltro senza giudicare indispensabile la presenza maschile all’interno di quest’ultima. Il tutto senza dimenticare che il suo successo non è solo personale, è una rivoluzione culturale: tutti i telefilm hanno un cast che rappresenta ogni componente, ogni etnia della società statunitense; girano intorno a donne protagoniste, dalla forte personalità, spesso afroamericane. “Quando ho creato la mia prima serie tv – scrive – ho fatto una cosa che consideravo normale: essendo il Ventunesimo secolo, mi sono adoperata affinché il mondo della fiction rispecchiasse il mondo di oggi. L’ho riempito di persone di tutti i colori, generi, estrazioni sociali e orientamenti sessuali. (…) Tutto questo, mi è stato detto e ridetto, è stato pionieristico e coraggioso. Spero che anche voi abbiate inarcato un sopracciglio, cari lettori. Perché dai, per favore”. Ecco. In settimane segnate da polemiche sulla connotazione ancora troppo bianca e wasp di Hollywood, sono parole che confortano.
Di Michele R. Serra da Il Fatto Quotidiano