Boris non deve morire

Boris non deve morire

La serie televisiva oggi disponibile anche su Netflix è una delle satire più influenti degli ultimi anni. Il perché? Rappresenta perfettamente l’ambiente lavorativo che ci circonda

Quasi agosto. La tv è morta d’estate, si sa. Tanto che le corna di Temptation Island riescono ad intrigare milionate di telespettatori tra falò, fellatio vere o presunte e burini tatuati, un’accozzaglia di burini tatuati vista mare. Ma tant’è. Chi non sta già nell’agognata località turistica prescelta una spiaggia la vuole pur vedere quando torna a casa dal lavoro, non importa se poi al posto del bagnino ci sia Filippo Bilisciglia, che del baywatch al massimo può vantare la dizione.

In questo clima rarefatto, sotto una costante cappa di 40 gradi percepiti ed effettivi con umidità all’altezza di Plutone, è un attimo raggiungere uno stato allucinatorio, intravedere il miraggio dell’oasi in un tale deserto di ciarpame stracotto dal sole. È successo l’altro giorno, all’improvviso, quando, Francesco Pannofino, nel corso del Campus Party, festival di innovazione e tecnologia tenutosi a Milano, ha annunciato che ci sarebbe “il desiderio e la volontà” di mettere in piedi “un proseguo di Boris”, ovvero una quarta stagione della serie cult trasmessa da Fox a partire dal 2007, poi replicata in chiaro su Cielo e ora disponibile interamente su Netflix. Tre stagioni in tutto.

L’intenzione sarebbe venuta a cast e produttori vedendo l’entusiasmo con cui a Torino è stato celebrato il decennale della prima messa in onda di Boris, appunto. Davvero non si erano mai accorti prima dell’impatto che il frutto del loro lavoro avesse avuto ed abbia tuttora sui telespettatori? In tempi recentissimi, tanto per fare un piccolo ma indicativo esempio, è stata creata una meravigliosa pagina Facebook, Ferretti cammina con me, in tributo al genio immortale (sì, anche a quello di David Lynch). Conta già quasi tredicimila seguaci e se voleste farci un giro, non rimarreste di certo basiti (o F4, per amor di brevità) da tale successo. Al netto del fatto che il seppur pregevole film tratto dalla serie non fu esattamente un blockbuster (perché la qualità c’ha rotto il cazzo), Boris è e sempre sarà nell’immaginario collettivo la miglior serie italiana mai girata. A partire dalla storica sigla affidata a Elio e Le Storie Tese che Badalamenti, per dirla alla Rovazzi, può accompagnare solo.

Ma Boris non è “soltanto” la miglior serie italiana mai girata, Boris è una seduta di psicoterapia, Boris è pure meglio degli straordinari di aprile. È come se questo piccolo grande gioiello di comicità al vetriolo, la cui trama si snoda sul set di una scadentissima fiction nostrana, Gli occhi del Cuore, avesse anticipato quello che la televisione sarebbe diventata negli anni a venire. Una televisione in cui, cioè, le produzioni Ares da L’Onore e il Rispetto in poi fino a scendere nel vortice dell’abisso e trovarci Pupetta avrebbero incollato ai teleschermi milioni di persone. Un mondo in cui, cioè, è stato reso possibile il successo di The Lady, la web-serie di Lory Del Santo, come fosse bere un bicchier d’acqua ghiacciata in questa maledettissima calura estiva. Un’interconnessione di reti in cui, sul serio, YouTuber arrivano a condurre programmi e recitano in fiction importanti (se così si può dire) facendo entrambe le cose “a cazzo di cane”. Un universo in cui, alla fine, se fai le storie Instagram e hai più di 2000 follower pretendi di avere un’agenzia che punti sul tuo personaggio curandone il relativo business. Bucio de culo, come direbbe “la linea comica” interpretata dal buon Notaio Mastellone. Esticazzi.

Il regista Renè Ferretti (Francesco Pannofino) e i suoi proverbiali “dai dai dai” “come diceva nonna” dieci anni dopo avrebbe da scontrarsi con mostruosità e storture, dunque, ben più spaventose di quelle che popolavano i set televisivi nel 2007, di certo molto più insidiose di Corinna Negri (una stupenda Carolina Crescentini) che, conclamata “cagna maledetta” si ostinava a diventare nientemeno che la Ferilli nonchè a millantare sempre e comunque 24 anni, per contratto. In compenso gli autori, il trio di autori professionisti del fancazzismo estremo, sarebbero l’unica sottotrama a non dover subire particolari modifiche per fornire una satira aderente alla realtà.

Ma è proprio questo il punto, in fondo. Una serie partita come “satira” di un certo modo di fare tv, come parodia dell’impepata di cozze mediatica che arriva a rendere La Casta, perché no, un cinepanettone, si è trovata a descrivere perfettamente non solo l’ambiente televisivo ma anche quello lavorativo in generale. Chi non si è mai trovato in ufficio “la figlia di Mazinga”, ovvero la ragazzetta incapace ma intoccabile per via di parentele e raccomandazioni? Oppure la signora (termine usato per essere politically correct) verso la pensione che ormai nemmeno si prende la briga di inviare una mail perché sta a un passo dal traguardo e nessuno, proprio nessuno, potrebbe mai toglierle questo sudatissimo, non si sa come, privilegio. Il privilegio, intendiamo, di far finta di lavorare mentre giovani nemmeno più troppo giovani ma sempre sottopagati per via dell’età (non importa che sia 18 o 35) svolgono i compiti dell’intero staff pur di “portare a casa la puntata”, ovvero, metaforicamente, il risultato, il goal, l’obiettivo di una qualunque azienda, in senso lato. Adattatela come vi pare, rende l’idea. Per questo chiunque, che lavori alle Poste o stacchi biglietti al cinema, si può riconoscere nei personaggi della serie e soprattutto è in grado di identificare qualche collega tramutando il proprio scorno in una riconciliante risata. C’è davvero chi (ri)guarda Boris per esorcizzare le beghe d’ufficio o un periodo no, magari un divorzio, un fallimento importante.

Perché la lezione di Boris, se vogliamo scomodare questo termine per una serie nata con ogni probabilità per scherzo, è che non importa quanto possa essere sfiancante una giornata, una persona, tante persone, non importa se Corrado Guzzanti vi obbliga a intonare canti di chiesa con una mazza chiodata in mano.

Quello che importa è capire che la vita e le sue dinamiche molto spesso non hanno senso, accettare questo fatto e riderci sopra, andare avanti nonostante tutto a forza di “dai dai dai”. Anche se dovesse saltar fuori che la ragazza dei vostri sogni, insospettabilmente, vota Berlusconi. E, a proposito, per chi voterebbe oggi, Arianna (Caterina Guzzanti)? Da quali serie tv americane (o coreane) riuscirebbero a copiare gli autori di Occhi del cuore?

Molti sono gli interrogativi ma, in definitiva, considerati gli stimoli esterni e l’empatia del pubblico, questa serie deve continuare per dimostrare che, nonostante tutto, “un’altra televisione è possibile”. Smobilitiamoci sui social, mettiamo in piedi una di quelle campagne totalmente inutili di guerriglia marketing social piazzando un pesce rosso come profile pic su Facebook e condividi se hai un cuore. Perchè Boris non deve morire. Perchè Boris è necessario. Ci ha insegnato, tra le altre cose, la locura, segreto inconfessabile di una serie tv malscritta ma acchiappascolti nonché della vita. Appunto per questo, se poi davvero dovessero iniziare le riprese, ci porteremo avanti organizzando una Festa del Grazie al primo “MOTOREEEI” di Renè Ferretti. Ovviamente con la tavola imbandita di quaglie e la speranza di evitare una pandemia di aviaria. O Temptation Island che, dai dai dai, dopotutto, siamo lì.

 Grazia Sambruna, Linkiesta

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