Ha interpretato (magistralmente) una delle icone americane più amate. Eppure ammette di non aver risolto l’enigma della first lady nel film che racconta i giorni successivi all’ attentato al Presidente Kennedy. L’attrice, mamma per la seconda volta, è tornata a Los Angeles dopo cinque anni a Parigi
Ogni persona è un mistero, ma Jackie è un mistero più grande di altri». Tre mesi passati a leggere «tutto quello che ho trovato su di lei» e altri due a essere la first lady sul set non sono bastati a Natalie Portman per carpire i segreti di una delle icone più illustri d’America. «Non basterebbe una vita» continua.
Anche lei però, in quanto a mistero, non scherza. Elegante nel suo abito di seta ricamato, il viso più pieno per la gravidanza, è quasi affettuosa nei convenevoli – di sicuro più della maggior parte delle sue colleghe americane – ma si trincera dietro a risposte sintetiche assai poco illuminanti.
Eppure è il fiore all’occhiello del cinema hollywoodiano: gran debutto a 13 anni in Léon, laurea ad Harvard in psicologia, Oscar come miglior attrice nel 2011 per Il cigno nero, un kolossal come Star Wars in curriculum (era la regina Amidala), si occupa anche di cose serie come fame nel mondo, povertà, diritti civili e degli animali (è vegetariana da sempre, vegana dal 2009, dopo aver letto Se niente importa. Perché mangiamo gli animali di Jonathan Safran Foer, di cui è grande amica).
Nonostante il notevole pancione (è in attesa del secondo figlio dal ballerino e coreografo francese Benjamin Millepied) ha trascorso le ultime settimane di gravidanza senza rinunciare al red carpet di Jackie negli Stati Uniti e altri eventi mondani. E la sua interpretazione nel film di Pablo Larrain, al cinema dal 14 febbraio, è considerata una delle migliori dell’anno.
È il suo ruolo più difficile?
Di sicuro il più rischioso: tutti conoscono Jackie, non solo l’aspetto in generale ma come si muoveva, il suo accento, la voce. Da un lato ci tieni a essere fedele, dall’altro vorresti sentirti libero di immaginare.
Si piace, nel film?
Mi trovo diversa, e va bene: per un’attrice è giusto vedersi come riflessa in uno specchio e non assomigliare a se stessa.
È vero che non ama riguardarsi?
Sì: lo faccio una volta per motivi professionali, poi basta.
Perché?
Non lo so di preciso. A molti non piace riascoltare la propria voce registrata, io ho quella sensazione quando mi guardo. E poi non voglio essere troppo narcisa. Preferisco essere fuori dal mio corpo, e dentro me stessa.
Quando capita un ruolo come Jackie, da dove si comincia?
Mi sono servite molto le trascrizioni delle sue interviste; e The White House Tour, il documentario del 1962 sulla prima volta in cui la first lady aprì al pubblico televisivo la Casa Bianca. Lo abbiamo riprodotto fedelmente, nel film. Molti mobili e oggetti portati dai vari presidenti erano stati venduti, Jackie li aveva recuperati trasformando le sale in una specie di museo della storia presidenziale americana. Per consolidare l’identità del Paese. Il film racconta i giorni tra l’assassinio di John F. Kennedy e il suo funerale. Fu Jackie a decidere di seguire il feretro a piedi con i due figli, momenti poi scolpiti nell’ immaginario collettivo. Anche questo ha contribuito a creare l’identità americana.
«Ha dato agli Stati Uniti quella dinastia che mancava» le dice il giornalista nel film. Lo fece più per ambizione o per amore verso il suo Paese?
Non lo so. Era una donna intelligente che subiva il conflitto tra l’essere una persona pubblica e il desiderio di intimità per la sua famiglia.
John la tradiva, ma Jackie sembrava amarlo molto lo stesso. La può capire?
Sono sempre situazioni complicate… Un tradimento non necessariamente cancella l’amore. Puoi provare nello stesso tempo sentimenti opposti. In quegli anni, poi, il divorzio significava altro da oggi; era più difficile per una donna essere indipendente dal punto di vista economico e sociale.
Qual è stata la parte più difficile del lavoro?
Ricreare un momento così terribile della storia. Non pensiamo mai abbastanza alla violenza che Jackie ha dovuto sopportare. Seduta accanto a suo marito, il suo sangue addosso e il resto, lei che aveva vissuto il momento fortunato dei due anni di presidenza Kennedy: una nuova Camelot, come si dice nel film, il sogno di una nazione unita e felice. Dal punto di vista tecnico ho molto faticato sul suo accento: era unico, un po’ upper class newyorkese, un po’ collegio per signorine bene (date un’occhiata al documentario White House Tour originale, si trova in rete, se volete verificare quanto Portman sia riuscita a imitarlo, ndr).
Ha conosciuto qualche Kennedy?
No, nessuno.
Dove avete ricostruito la Casa Bianca?
A Parigi: vivevo lì quando abbiamo girato.
Da alcuni mesi è tornata negli Stati Uniti.
Mio marito ha lasciato la direzione dell’Opera. A Los Angeles ha la sua compagnia di ballo, la Los Angeles dance project: lavora con loro.
Balla ancora, dopo Il cigno nero? Per tenersi in forma…
Ogni tanto, per divertirmi. Ma non danza classica. Non è il mio genere di attività preferita.
Nonostante il secondo figlio in arrivo la vedremo in quattro film nel prossimo anno.
Ho molti progetti ma è dura, come sa ogni genitore. Mantenere l’equilibrio è una sfida, ma sono fortunata ad avere un lavoro che mi lascia molto tempo libero tra un film e l’altro.
Produrrà e interpreterà anche una serie tv, “We Are All Completely Beside Ourselves”. Anche lei non ha resistito al richiamo, come molti attori in questi anni?
La qualità è altissima, la linea di confine con il cinema sempre più sottile.
Jackie finisce con manichini uguali alla first lady distribuiti per tutta l’America. Si ritrova nel suo stile?
Ho usato abiti bellissimi, ma non era lo stile il cuore del film. Non ci ho pensato molto.
Anche lei è una icona di stile.
Dice? Non saprei. Di sicuro la moda è un mezzo divertente per esprimere se stessi nella vita quotidiana. Per sottolineare la propria personalità. E, sì, anche la propria bellezza.
di Anna Maria Speroni, IO DONNA (Corriere della Sera)