Eppure è angelicata. Capace di fare un ingresso da diva anche in un sabba, resistente a tutti gli effetti della “terribilità” che il regista Luca Guadagnino ha costruito intorno a lei e alle altre signore di Suspiria (Tilda Swinton, Mia Goth, Sylvie Testud, Angela Winkler), Dakota Johnson in realtà trasuda delicatezza. Nella crudeltà della Storia di cui il film si nutre (sei atti e un epilogo ambientati a Berlino nel 1977, a ridosso del Muro, sullo sfondo il braccio di ferro tra il governo tedesco e i sequestratori del capo della Confindustria Hanns-Martin Schleyer, ex ufficiale delle SS) lei porta bellezza: nel covo di streghe che è la Markos Tanz Company entra danzando. Danza macabra, certo, ma potentissima. Susie/Dakota si libra sempre più in alto e, a ogni balzo, un colpo più feroce si abbatte sul corpo di una povera infelice che aveva osato dubitare del potere delle streghe.
Potere e repressione, la madre come figura archetipica (quella di Susie la bolla fin da subito, nel lontanissimo Ohio da cui proviene, come “seme del male”), l’oblio del passato (il grande rimosso tedesco) e la necessità di capirlo, addirittura psicanalizzarlo: salire sulla giostra del film – che è un horror ma, a volerci fare i conti, fa più paura quando si è già usciti dal cinema – dà il capogiro. Eppure Dakota Johnson, pedigree ed esperienza, sa che le toccherà scendere sulla terra e rispondere a domande su magia e mistero e lo fa con grazia e disciplina: «Da bambina ci credevo e ci credo anche ora… ma non abracadabra… Oddio, come posso dirlo senza che poi venga estrapolato dal contesto e qualcuno titoli: “Dakota Johnson è ossessionata dalla magia”?».
Le hanno appena attribuito una gravidanza per aver liberato palloncini blu (quindi era un maschio) il giorno del suo compleanno insieme al fidanzato Chris Martin. Le avevano attribuito un esaurimento nervoso per aver lavorato in un film come questo, “psicologicamente intenso”. Eppure non c’è battuta che quelle labbra non possano pronunciare. Da professionista: atroce e misericordiosa, come richiesto (l’essenza della danza? «Come fottere». «Un uomo?». «Pensavo a un animale» la risposta).
Spettatori e critici escono dalle proiezioni di Suspiria con sentimenti contrastanti, paura, disagio certo, ma anche un’inaspettata tristezza. Se lo sarebbe aspettato?
Suspiria parla di un autunno. Della Germania, dell’Europa, e del suo senso di colpa. Il mio personaggio arriva da lontano, da una comunità religiosa chiusa al mondo esterno, la sua storia nasce nel lutto. Ci sono molte ragioni di tristezza. Ma c’è sangue in abbondanza, sul set dovevamo stare attenti a non scivolarci sopra…
Nel film ballare è recitare. E ballare è soffrire. Come ci siete arrivati?
Molto training, molto studio. Delle coreografie di Mary Wigman, Martha Graham e Pina Bausch (cui il personaggio di Tilda Swinton chiaramente si ispira, ndr). E tanti film da vedere, Scarpette rosse su tutti. Il mio personaggio è una bravissima ballerina, ma non ha ricevuto training, i suoi movimenti sono istintivi, non studiati. Perciò la sua danza doveva essere un’amalgama di stili diversi, cose che aveva visto, sentito, letto, introiettato quasi senza saperlo. Così, durante la preparazione, ascoltavo musica molto diversa: Nina Simone, i Jefferson Airplane, The Carpenters… musica che Susie avrebbe avuto a disposizione in Ohio negli anni ’70, durante l’adolescenza. Ho studiato per sei mesi con Damien Jalet (autore delle coreografie di Suspiria, ndr) e durante le riprese la formazione è continuata: è stato faticosissimo, ma meraviglioso.
È al secondo film con Luca Guadagnino. Si ricorda com’è stato il vostro primo incontro?
Luca mi aveva convocato a Crema, a casa sua. Mentre passeggiavamo per le strade della città mi ha chiesto di andare con lui a Pantelleria per girare A Bigger Splash (film del 2015, ndr). Ricordo che silenziosamente mi chiedevo: «Ma tu chi sei?», non riuscivo proprio a inquadrarlo. Il resto è storia, l’ho raggiunto sull’isola, ma mi sentivo fragilissima, come se fossi in vacanza, non riuscivo a concentrarmi, volevo scappare, ero terrorizzata, non volevo sprecare il tempo di tutte quelle persone, ma Luca e Tilda mi convinsero a restare. Hanno fatto bene. Da allora abbiamo cospirato insieme costantemente.
Si è accorta subito che sarebbe stato più che lavoro, che sareste diventati amici, che era scattato qualcosa?
Dal momento che ho iniziato a lavorare con lui ho capito con chiarezza che vorrò farlo per sempre. E so che per lui è la stessa cosa. Ora siamo famiglia.
E sull’isola avete cominciato a parlare di Suspiria: era la prima volta che veniva coinvolta in un progetto dal primo istante?
Tilda è coinvolta da più tempo, ma per me è stato tutto molto eccitante fin da subito. Sento la responsabilità di questo film sulle mie spalle in maniera profonda. Oggi, al pensiero dell’intervista, per esempio ho i nervi a fior di pelle. Nervi di prima classe! Ed è come se avessi lasciato a casa il cervello, ho perso il passaporto, ho perso l’aereo, quando sono riuscita a prenderlo ci ho dimenticato sopra il vestito, ho lasciato il telefono nel bagno dell’aereoporto…
Forse perché si tratta di un film di sole donne, che parla dell’incredibile e terribile potere del femminile?
Sono molto orgogliosa delle donne di questo film, dell’immagine delle donne che ne esce. E farlo è stato favoloso, temevo che ci sarebbe stata invidia, qualche stranezza, ma tutte erano comprensive e solidali. Quando le donne si liberano di questa idea datata che devono per forza entrare in competizione, tutto è possibile.
Forse è solo una fantasia maschile.
Be’, maschi nel film ce ne sono…
Le streghe li incantano per poi farsi beffe delle dimensioni dei loro genitali.
Appunto.
È arrivata a Suspiria direttamente dal set di 50 sfumature?
Transizione difficile eh…?
Che cosa si aspettava dalla trilogia? Qualcosa di diverso da ciò che poi è stato?
Tutti sapevamo quello che sarebbe successo. Non ci aspettavamo il plauso della critica, anche se il primo film è altra cosa rispetto ai due che sono seguiti. Per Suspiria invece ci aspettavamo critiche polarizzate: così è stato. E io trovo che sia fantastico. L’arte deve provocare. Deve farci pensare. Non deve cercare l’unanime consenso.
Non sono in molti a pensarla più così: provocare, suscitare riflessioni fa paura.
È vero, c’è paura di essere rifiutati, di non essere capiti, di fallire economicamente. Anch’io ho queste paure. Ma, da attrice, lavorare con chi queste paure le tiene a bada è molto eccitante.
Da attrice quali sono i suoi idoli?
Sono cresciuta adorando Gena Rowlands, Michelle Pfeiffer, Elizabeth Taylor, Sophia Loren. Mia nonna (Tippi Hedren, ndr) adora Sophia Loren, ha fatto un film con lei, La contessa di Hong Kong, ne era ossessionata.
Ricorda il momento in cui decise che sarebbe stata attrice?
Lo faccio ogni giorno, lo ri-decido continuamente, strano… dovrebbe essere ovvio. In realtà credo di esserlo sempre stata. C’è una foto che mia madre (Melanie Griffith, ndr) mi ha dato di recente scattata sul set di Lezioni di anatomia (film con Ed Harris, del 1994, ndr). Mia madre era la protagonista del film, mia nonna in visita si era accomodata sulla sua sedia e io nella foto sono in braccio a lei. Indosso dei jeans di pelle e un collo di pelliccia. Sfrontata, come se fosse già il mio show. Probabilmente avevo 4 anni…
Era ovvio, circondata com’era da gente che fa film.
Amo i film, amo la gente che li fa, adoro la loro passione, i loro cervelli incredibili. Adoro stare sul set, la cura dei dettagli del lavoro che si fa sul set. E amo vedere i film sul grande schermo. Andrei di più al cinema se avessi tempo. Adoro vedere i film con la gente intorno.
Paola Piacenza, Io Donna