Lo storico bassista presenta il cd «The Message» tra ballate, rap e Bach
È appena stato in tournée in Italia (splendido il suo concerto al Blue Note di Milano) e lascia in eredità a chi non l’ha potuto vedere l’album The Message.
Stanley Clarke, 67 anni, l’uomo che ha rifondato lo stile del basso elettrico, è sempre pronto a sorprendere. «Non dimentico il passato – racconta – che è stato la mia palestra di vita, ma sono perfettamente calato nell’attualità, nel presente, così penso che il mio suono sia sempre moderno». Infatti in The Message c’è un mix sonoro che sfuggirebbe di mano a qualunque altro musicista, se è vero che si spazia dalla Bach Cello Suite 1 (Prelude) al rap e ad un pizzico di rock. «Bach è stato il primo grande improvvisatore; per celebrarlo ho usato il contrabbasso con l’archetto. Questa Suite è paradisiaca». Al suo fianco c’è una band di giovani e nel disco ha invitato altri quattordici musicisti. «Per coloriemeglio le composizioni, per creare un vero ensemble che sappia spaziare in tutti i generi e stili». Non si monta la testa l’innovatore del basso moderno: «il jazz è sempre un libro aperto con nuove pagine da riempire. Per questo cerco mi impegno a battere sempre strade diverse». E a suonare pefino la chitarra acustica in The Message che dà titolo all’album. Ma qual è il messaggio? «Il messaggio è ricerca ed amore. Era così quando fondammo i Return to Forever con Chick Corea e sarà così domani». John McLaughlin ci disse un giorno che il jazz rock, a parte i Return to Forever, i Weather Report, Herbie Hancock e pochi altri era tutto «hamburger music», cosa ne pensa Clarke? «Quando un suono va di moda tutti cercano di approfittarne. Ma il jazz rock, o fusion, ha partorito opere geniali e ha avuto numi tutelari come Miles Davis». Clarke, oltre ai concerti, sta già pensando anche a un nuovo lavoro discografico: «Compongo molto, anche se i concerti dal vivo mi danno quell’adrenalina che è la mia vera droga. Bisogna fare musica che scuota la gente; guardate il rap, riesce a interpretare e a dare voce alle esigenze dei giovani, così come il blues all’inizio del secolo dava corpo alle speranze degli afroamericani». Virtuoso del conrtrabbasso e soprattutto del basso elettrico, celebra sempre i suoi maestri. «A parte il mitico Charlie Mingus, sono stato influenzato da artisti ancora attivi come Ron Carter e poi da Dave Holland con le sue evoluzioni che spazia dalla tradizione del jazz classico al free più sfrenato. Ho assimilato la loro lezione prima di sviluppare il mio stile, e mi fa piacere sapere che sono molto seguito, soprattutto dai giovani, anche se il jazz rock non è così in uage come negli anni Settanta».
Antonio Lodetti, il Giornale