Nonostante tutte le discriminazioni vengano percepite culturalmente non accettabili, i dati confermano che gli individui più attraenti hanno più chances di essere assunti durante il processo di selezione e fare successo
Mai come in questo periodo storico si parla tanto di inclusività, con l’obiettivo lontanissimo fino a soli 10 anni fa, di cancellare tutte le differenze, partendo da quelle più evidenti, legate all’aspetto fisico, come il colore della pelle, la corporatura, troppo magri, troppo grassi. Per poi passare al ceto sociale, all’età. Di fatto però nonostante tutte le discriminazioni vengano percepite culturalmente come sempre meno accettabili e sempre più denunciate come tali, la realtà non sempre va di pari passo con le intenzioni. Per il sociologo francese Jean-François Amadieu non c’è alcun dubbio riguardo al fatto che gli individui più attraenti abbiano maggiori opportunità di essere assunti durante il processo di selezione e di scalare i gradini di un’azienda. E lo sottolinea citando uno studio condotto dall’Osservatorio delle discriminazioni francese secondo il quale, di fronte a CV identici, la candidatura di un uomo o una donna d’apparenza standard ottiene il doppio di risposte positive di quella di un uomo o una donna dal viso sgraziato perché i selezionatori sono inconsciamente guidati nella loro scelta dall’apparenza dei candidati, nonostante pretendano di appoggiarsi su strumenti d’apprezzamento oggettivi per giudicare le competenze dei candidati. Insomma, secondo Amadieu un aspetto poco curato ha quasi lo stesso impatto di un buco di un anno in un CV e più di un percorso professionale incoerente.
Secondo il professor Albert Mehrabian, psicologo statunitense di origine armena, attualmente docente presso la UCLA, famoso per le sue pubblicazioni sull’importanza degli elementi non verbali nella comunicazione vis à vis, l’impatto che noi abbiamo su qualcuno è legato nel 55% dei casi al nostro viso, nel 38% dalla nostra voce e solamente dal 7% su ciò che noi diciamo. Quindi un fisico gradevole permette non solo di essere assunti più facilmente, ma anche di guadagnare di più. Una persona dal fisico attraente è giudicata più intelligente, ambiziosa, calorosa, socievole ed equilibrata. Al contrario, di una meno attraente che viene percepita come trascurata e meno dotata.
Insomma che la bella apparenza conti lo afferma anche Malcolm Gladwell, giovane scrittore nato in Inghilterra e cresciuto nell’Ontario, ora residente a New York, inserito nel 2005 dal Times nell’elenco dei 100 personaggi più influenti del mondo, che nei suoi best seller parla dell’importanza e influenza dell’aspetto fisico raccontando storie e aneddoti divertenti e citando personaggi singolari. Tra questi Warren Harding, eletto 29esimo presidente degli Stati Uniti, perché fisicamente rispecchiava il modello di presidente che che vin quel momento gli americani volevano. Peccato che poi di fatto, a detta di Gladwell, abbia poi dato prova di non avere le physique du rôle nel prendere decisioni importanti.
Siamo davvero inclusivi?
“Per i settori che conosco maggiormente ovvero nell’ambito immobiliare e creditizio”, spiega Bruno Vettore, CEO FC Group Holding spa, tra i manager più affermati del real estate italiano, “il fattore di cui bisogna tenere conto è quello della ‘coerenza’. In ogni situazione, soprattutto in ambito commerciale, serve soddisfare le esigenze di qualità e di immagine complessiva che il cliente richiede. E quindi bisogna essere coerenti con l’ambiente, le circostanze e il proprio target di mercato. Non si tratta di apparenza o meno, si tratta di rispetto ed efficacia relazionale”.
Ne sa qualcosa la manager italiana Linda Serra, che grazie alla sua tenacia ha dato vita a Work Wide Women, un’azienda nata in origine come prima piattaforma di social learning per la formazione femminile sulle nuove professioni inerenti al web e alle nuove tecnologie e che successivamente ha sviluppato anche soluzioni B2B aiutando le aziende a portare avanti progetti di Diversity & Inclusion al proprio interno, in modo da consolidare la popolazione aziendale attraverso valorizzazione delle differenze. “Operiamo nel concreto per dar vita a un mondo in cui le differenze siano premiate, le diversità facciano da collante tra le persone e le opportunità siano poste sullo stesso piano, ugualmente raggiungibili”, spiega Linda.
Gli ostacoli per fare carriera però in Italia restano a causa della mancanza di misure volte a garantire alle donne di crescere a livello professionale. “Si parla molto per esempio di assistenza dei genitori anziani, il famoso ‘effetto sandwich’”, racconta Linda, “ma le donne sono costrette tra famiglia naturale, famiglia costituita e lavoro, per questo non riescono a fare carriera. Questo fenomeno in altri paesi EU è meno presente grazie alle misure pubbliche di welfare che assistono le donne, le famiglie e addirittura in alcuni paesi si arriva a stipendiare i nonni che si prendono cura dei nipoti e contribuiscono così al sostegno delle famiglie”.
In alcuni paesi si arriva a stipendiare i nonni che si prendono cura dei nipoti e contribuiscono così al sostegno delle famiglie
” Le donne costituiscono la metà della popolazione mondiale; non è pensabile che le aziende non riflettano questa evidenza. Un’azienda produttrice di servizi pensati per il canale consumer, ad esempio, non può prescindere da una componente femminile nel team di progettazione e sviluppo, perché rischierebbe di non considerare le esigenze del 50% dell’utenza finale e quindi presentare al mercato un prodotto che non risponde alle aspettative del 50% del target. Negli ultimi anni, le aziende stanno prendendo consapevolezza del fatto che, come ampiamente dimostrato da numerose ricerche, una popolazione aziendale variegata performa il 15% in più delle altre”, sottolinea la manager, “ma anche che le aziende che hanno un sistema di welfare inclusivo hanno migliori performance nella talent attraction and retention pari al 35%. Tutte le diversità portano sempre valore aggiunto, in ogni campo: è da tempo dimostrato team eterogenei producono progetti più creativi e più rispondenti agli obiettivi preposti. Le aziende che intraprendono azioni volte all’inclusione fatturano un 20% in + rispetto alle aziende che non lo fanno. Inoltre recenti ricerche dimostrano che le aziende guidate da un leadership team in parte femminile dimostrano maggiore resilienza e permanenza sul mercato che se da una parte le rende soggetti economicamente meno aggressivi, dall’altra le salvaguarda nel tempo rendendo le aziende più longeve e in grado di resistere meglio agli stress economici. Lavoriamo sia a fianco delle donne che delle aziende per creare reciproche opportunità di inclusione, occupazione e accrescimento: è con queste premesse che abbiamo realizzato Diversity@Work, il primo videogame dedicato alla diffusione della cultura inclusiva in azienda. Si tratta di un progetto innovativo nato da mesi e mesi di osservazioni del mercato, da colloqui con HR e Diversity Manager e da un susseguirsi di domande. Il punto di partenza è stata la constatazione che le attività di formazione sulla diversity sono viste come qualcosa di superfluo, estremamente noioso e purtroppo spesso inutile. Il nostro videogame è un’esperienza innovativa che cala il giocatore in contesti reali, per riflettere sulle reazioni a situazioni in cui ciascuno di noi può ritrovarsi e aiuta a dimostrare come un’azione, spesso guidata da automatismi o da stereotipi, possa modificare le sorti della nostra produttività”.
(Patrizia Vassallo)