Nick Mason: “I Pink Floyd erano libertà”

Nick Mason: “I Pink Floyd erano libertà”

Il batterista dello storico gruppo torna in concerto in Italia, con il repertorio dei primi album della band

I Pink Floyd come band vera e propria non suonano più dal 1994, anno dell’ultimo tour del gruppo senza Waters e, a parte la storica reunion del Live 8 e qualche occasionale collaborazione tra due dei tre componenti. Per Nick Mason le occasioni di suonare la musica che ha contributo a creare sono state, negli ultimi venticinque anni, veramente troppo poche. È per questo che il batterista dei Pink Floyd ha deciso di tornare in scena con una band chiamata non a caso Saucerful of secrets, «essenzialmente perché volevo suonare la batteria di nuovo, venticinque anni di pausa sono molti e mi sembra sia troppo presto per andare in pensione. E quindi ho colto l’opportunità di suonare con degli amici», ci dice. Gli amici sono Guy Pratt, bassista dei Pink Floyd dopo la separazione con Waters, Lee Harris, chitarrista che ha militato nei Blockheads di Ian Dury, il produttore e tastierista Dom Beken e l’ex Spandau Ballett Gary Kemp. Il repertorio, invece, è quello dei Pink Floyd del 1967, di album come The piper at the gates of dawn e A saucerful of secrets, gli esordi discografici del gruppo. Brani che, in alcuni casi, non erano suonati live da un componente dei Pink Floyd da oltre quarant’anni. Sei concerti italiani (8 luglio Chieti, 12 Taormina, 14 Ravenna, 16 Roma, 17 Perugia, 18 Brescia) con la band dell’unico musicista che ha suonato in ogni tour e in ogni disco dei Pink Floyd.

Ha scelto il repertorio dei Pink Floyd degli esordi…
«Quando si è creata questa occasione ho iniziato a pensare cosa mi sarebbe piaciuto suonare. Ovviamente la musica dei Pink Floyd, ma non volevo fare né le stesse cose che suonano dal vivo Waters (che lo ha raggiunto a sorpresa sul palco lo scorso aprile a New York, ndr) e Gilmour, e nemmeno fare un repertorio da tribute band. Quindi ho trovato interessante l’idea di riprendere la musica dei nostri inizi e soprattutto l’idea di non suonare quei brani nota per nota, ma con lo stesso spirito».

Quindi da cosa è partito? Quali sono state le difficoltà nel riprendere brani che non suonava da tantissimo tempo?
«È ovvio che ricordavo bene come si sviluppava la musica all’epoca e allo stesso tempo avevo tutti i riferimenti dei dischi che abbiamo registrato. Ma sapevo anche che l’unico modo per essere realmente fedeli a quel lavoro era tenerne vivo lo spirito di avventura, la voglia di sperimentare, di scoprire cose nuove. Tutto questo ha reso le cose più semplici, perché ho affrontato le cose in maniera rilassata. Ma finché non abbiamo a suonare non mi era chiaro, semplicemente riascoltando i brani, di quanto fossero complesse le cose che realizzavamo all’epoca».

Era musica d’avanguardia e per molti versi lo è ancora oggi.
«Sì, la cosa interessante è che non si nota quanto tempo sia passato, la forza di quella musica è rimasta intatta, contiene ancora opportunità notevoli di scoprire cose nuove, anche oggi. È vero, eravamo all’avanguardia, ma il mondo era assai diverso e tutto sembrava nuovo. Ma trovo bellissimo che ancora oggi sia possibile, suonando quelle cose, scoprire qualcosa di inedito».

Già, cosa ricorda dei concerti dell’epoca? Com’era suonare all’UFO Club?
«Ho molti bei ricordi di quei giorni, ma ovviamente dopo tanti anni è difficile capire cosa è vero ricordo e cosa invece si è stratificato con il tempo. Di certo nel 1967 la nostra musica era quindi guidata proprio dalla mancanza di abilità. Non avevamo cose da offrire che non fossero idee e inventiva, cercavamo la nostra identità. Era l’inizio di un viaggio di scoperta, che ci coinvolgeva completamente».

Il pubblico oggi è cambiato?
«Sì, ma non così tanto. La differenza più grande è che alla fine degli anni 60 la musica aveva più potere, più peso nella vita della gente. Negli ultimi venticinque anni si è svalutata, la gente si è abituata all’idea che debba costare poco o che sia gratis, che ci sia sempre a dovunque, o che sia solo una colonna sonora per altre attività. È un peccato ma è così. Oggi c’è l’intrattenimento digitale, ci sono Netflix e i social media, la gente passa il suo tempo in maniera diversa».

Che tipo di pubblico arriva ai suoi concerti, solo nostalgici o anche giovani curiosi?
«È un mix curioso, ci sono ragazzi che ascoltano i Pink Floyd degli esordi come noi ascoltavamo i grandi del blues, molti giovani musicisti, ma anche tante persone più anziane per le quali la musica è ancora una parte importante della vita».

Di certo la musica dei primi anni dei Pink Floyd sfuggiva ad ogni possibile etichetta o categoria.
«Non ci è mai piaciuta l’idea di essere legati a un genere in particolare, ma credo che questo sia vero per ogni musicista. Ci muovevamo liberamente, le cose più idilliache di Syd erano molto lontane da Interstellar ovedrive, ma riuscivamo a conciliarle. Poi ogni cosa nel tempo ha trovato il suo spazio».

Ernesto Assante, repubblica.it

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