A 50 ANNI DALLA MORTE DI TOTÒ: RECUPERIAMO I SUOI SBERLEFFI AUTENTICI (ANCHE TRIVIALI) SENZA INTELLETTUALISMI

A 50 ANNI DALLA MORTE DI TOTÒ: RECUPERIAMO I SUOI SBERLEFFI AUTENTICI (ANCHE TRIVIALI) SENZA INTELLETTUALISMI

Il revival sul grande comico rischia di essere ripetitivo: Totò divertiva e trascinava perché spezzava la logica del buon senso. No ai falsi intellettualismiIl revival sul grande comico rischia di essere ripetitivo: Totò divertiva e trascinava perché spezzava la logica del buon senso. No ai falsi intellettualismi

Povero Totò! Morto cinquant’anni fa, il 15 aprile 1967, ha finito per diventare quello che aveva evitato per tutta la vita: un monumento a se stesso. Non lo era stato da vivo, quando il suo istinto, la sua cultura, le sue radici riuscivano ancora a far storcere il naso a più di un benpensante, gli è toccato diventarlo da morto, quando il senso di colpa nei tanti che non ne avevano capito il valore ha generato, per contrappasso, una specie di imbalsamazione e sterilizzazione della sua vitalità. Che poi era il segreto e il valore della sua arte. Totò divertiva e trascinava perché spezzava la logica del buon senso, della prevedibilità, dell’educazione.
C’era in lui «il gusto del gesto incoerente, della rapidità delle soluzioni e delle rotture, la spregiudicatezza dell’invenzione» ha scritto Goffredo Fofi, che meglio di tutti ne ha parlato, e quando era ancora vivo. Ed era, quella totoesca, un’immediatezza che provocava e non si lasciava addomesticare da una risata consolatoria. Si rideva se ci si lasciava sorprendere da un’azione che altri avrebbero definito volgare oppure maleducata o irriverente. La sua logica non ammetteva rimpianti o scuse: ai Mezzacapa le finestre si rompevano a prescindere. E lo si insegnava anche al nipotino.
Non a caso Totò veniva dall’avanspettacolo e da Napoli, due scuole di vita che non ha mai dimenticato né voluto edulcorare. Era su quei palcoscenici e in quei vicoli che aveva imparato a trasformare la fame in gag, l’irriverenza in biglietto da visita, a fare a meno di ogni freno inibitore per soddisfare un appetito (di cibo, di sesso, di vita) che la buona educazione avrebbe voluto tener a freno. Meglio: nascondere. E che invece i suoi mille personaggi rivendicavano con forza e rabbia, indifferenti a ogni possibile mediazione sociologica o politica. Anche a rischio di cadere nella sottocultura, nella scorrettezza, nell’irriverenza. Fa ridere storpiare Moet Chandon in «Mo’ esce Antonio»? Non è questo il punto, ma il piacere di irridere le forme che gli altri impongono, le regole che si vogliono intoccabili, il buon senso che trionfa.
I suoi revival invece, hanno finito per perdere ogni volta un po’ della sua rabbia, della sua irrispettosità, del suo cinismo, costretti dentro palinsesti sempre più ripetitivi, dissezionati con vuota acribia accademica. Chi è ancora sensibile alla componente più maleducata dei suoi personaggi? A quella più popolaresca e triviale? Oggi i suoi film più gettonati sono quelli più facilmente irreggimentabili, incasellabili dentro una qualche forma di innocua «normalità». Come accade più in generale alla cultura italiana, anche Totò ha dovuto fare i conti con i professori, gli esperti, i tuttologi che invece di ridere incasellano, invece di divertirsi analizzano.
Scommettiamo che anche per festeggiare il cinquantenario della scomparsa si alzeranno le voci di chi lamenterà il suo scarso utilizzo da parte di un cinema incapace di riconoscere le sue qualità interpretative, di chi rimpiangerà che solo pochi hanno saputo davvero capirlo e apprezzarlo. I soliti nomi: Pasolini naturalmente, poi Rossellini, Lattuada, Eduardo, un po’ De Sica, un po’ Monicelli, forse. E in tanti si faranno belli con le sue citazioni più popolari: «Ogni limite ha una pazienza!», «E io pago! Io pago!», «Sono un uomo di mondo: ho fatto tre anni di militare a Cuneo», «Porga tante esequie alla sua signora», «Onorevole lei? Ma mi faccia il piacere!» e via di questo passo. E invece il Totò che andrebbe ricordato e festeggiato è quello più popolaresco, ruspante, anche squinternato, quello dei Mastrocinque, dei Mattoli, degli Steno, dei Bragaglia, dei Metz e Marchesi, quello più scatenato e nonsensico, dove la bizzarria e l’aggressività, la vitalità e la volgarità (sì, anche quella) erano rivendicate in nome di un divertimento che si faceva sberleffo e cachinni, liberatorio e libertario. Dove Totò era libero di fare davvero Totò.

Paolo Mereghetti, Il Corriere della sera

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