PARLA MANUEL AGNELLI, VOCE DEGLI AFTERHOURS E GIUDICE DI ‘X FACTOR’: SANREMO SÌ, SANREMO NO

Nel 2009, con gli Afterhours, decidemmo di rompere il tabù e di andare al festival. Pensavamo di incontrare il demonio, il nostro nemico culturale numero uno. Invece era solo un carrozzone privo di contenuti. Ma anche un grande megafono promozionale. Infatti ci servì: ci ha dato il potere di realizzare nuovi progetti. E fu utile anche per capire la pochezza di un altro ambiente, quello alternativo

LAEFFE AGNELLIPer quelli della mia generazione, nell’ambiente della cosiddetta musica alternativa, Sanremo era il demonio.
Per questo decidemmo di andarci con spirito avventuroso pronti a duellare senza quartiere con mignotte ed avventurieri.
Eravamo lì a fare promozione a noi e a tutto un ambiente, il nostro, che si è sempre autoghettizzato ma che continuava a sembrarci sottovalutato, nei numeri e nella sostanza.
Eravamo lì per usare il festival.
Il desiderio di romanticizzare tutto però, per giustificare eticamente la nostra partecipazione, ci portò a cercare dovunque prima di tutto le mignotte.
Con risultati davvero scarsi.
Ogni sera dopo il programma giravamo a caso prima per il teatro, poi per i luoghi di aggregazione dopo- festival e per finire, immancabilmente, al casinò.
Lì, fra poche persone vagamente distratte alla roulette, tutta la tristezza della nostra sconfitta e della conseguente delusione si materializzava in un paio di bicchieri di bollicine andate a male.
Nessuna decadenza, solo finte sbornie e finti litigi, nessun eccesso leggendario che potesse giustificare un carrozzone così privo di contenuti.
Insomma anche come festa parecchio noiosa direi, tutti a letto alle nove per non avere rughette d’espressione il giorno dopo.
In passato, negli anni ’50 e ’60, il festival aveva rappresentato la musica italiana e la rappresentava in maniera sufficientemente completa.
Intorno al festival nascevano storie e leggende che nutrivano l’immaginazione degli italiani e la creatività degli artisti. Poi, crescendo e soprattutto rimanendo per l’industria musicale del nostro paese l’unico grande veicolo promozionale al quale affidarsi, era stata la musica italiana a rappresentare il festival.
Le canzoni venivano fatte in funzione del festival, con standard ben precisi.
In realtà da anni Sanremo è solo un megafono promozionale.
Anzi IL megafono.
La cosa più potente a disposizione di tutti quelli che ne sanno approfittare e per questo tutti hanno cercato, a volte violentandola, a volte imbalsamandola, di cambiarla e di adattarla ai loro scopi.
Ma il dna del festival è troppo forte e resiste ad ogni cambiamento.
Con il tempo ha perso persino la funzione simbolica di nemico culturale ed è diventato puro trash. La rappresentazione di un Italia che non ci piace e di un modo di fare spettacolo che svilisce qualsiasi tentativo di commistione con il mondo culturale.
Non la controcultura della controcultura.
Il niente.
Che è molto più potente.
Infatti abbiamo continuato tutti a guardarlo.
Andandoci quindi decidemmo che avremmo fatto solo quello che ci sarebbe parso giusto fare.
E facemmo tutto quello che ci venne in mente. E soprattutto non facemmo niente che non ci piacesse.
Fummo incoraggiati e tutelati, quasi protetti da Paolo Bonolis che si rivelò con noi un signore ed un gran padrone di casa.
Portammo un pezzo complicato ed inascoltabile per le orecchie del pubblico abituato al bel canto, rifiutandoci di partecipare alla gran parte di circo mediatico per la quale altri avrebbero ucciso e rifiutando di inserire il nostro pezzo nella compilation del festival.
Creammo una nostra compilation con la nostra canzone a far da traino per 18 altri gruppi per lo più sconosciuti alla massa (e non solo).
Tutto perché stavamo dando a Sanremo una credibilità e una grandezza che non gli apparteneva più. Perché continuavamo a vederci un nemico.
Ma non ci furono battaglie, niente petto nudo davanti alle mitragliatrici. Niente contraddittorio. Le uniche critiche veramente pesanti, ferocissime, le ricevemmo dal nostro pubblico.
Da quello che, come noi, aveva bisogno di un nemico per darsi un senso.
Vincemmo anche il premio della critica, un piatto argentato nel quale mangiai un’aragosta intera la sera stessa nel disperato tentativo di fare qualcosa di decadente.
Gli episodi che ci rimangono in mente alla fine sono perlopiù picareschi ed insignificanti: la gente che ci chiede gli autografi e le foto perché ci vede uscire dal teatro senza sapere neppure se eravamo cantanti o attrezzisti, Patty Pravo che a 60 anni, per cambiarsi d’abito, si spoglia nuda davanti a noi e tira una manata sul sedere di Iva Zanicchi dicendole: Iva ma che culone che hai!
Oppure Roberto il nostro bassista che imita Albano prendendolo in giro per ritrovarselo alle spalle con lo sguardo inferocito.
E soprattutto il cambio palco delirante, in una situazione non abituata alle band che vogliono suonare dal vivo, fatto durante la pausa pubblicitaria.
180 secondi per allestire sei postazioni per i 6 musicisti con voci, amplificatori e batteria.
180 secondi che risultarono nell’ eseguire il pezzo con il monitor di Giorgio, il batterista, spento e il basso di Roberto scordato di un quarto di tono ed io, che me l’ero fatto mettere nell’ ear-monitor come riferimento, a cercare l’intonazione in una terra di nessuno per tutto il brano.
Il tutto davanti a 17 milioni di spettatori.
Ci sta bene perché anche noi eravamo li per sfruttare il festival, alla nostra maniera si intende, ma sempre da sfruttatori.
La grandeur romantica e decadente che gli avevamo affibbiato ci era servita per rendere più grande il nostro nemico e bearci del nostro eroismo nell’essere li ad affrontarlo.
Davide contro Golia.
Invece era il bagaglino. L’Italietta.
E Sanremo, come l’Italia, non si cambia.
Bisognerebbe fare la rivoluzione ma sarebbe destabilizzante per tutti.
Cambiarlo è come montare un paio di gambe lunghe su uno dei nani che accompagnano le ballerine e fare finta che sia alto.
Cambiarlo sarebbe inaccettabile per i farisei della cultura che dal festival continuano ad essere rassicurati sulla loro intelligenza.
Quello che serve non è cambiare Sanremo, così come non è cambiare le cose che esistono, ma crearne di nuove che non nascano già contaminate o non siano già troppo marce per poter rappresentare ogni parte musicale del paese con tutta la libertà che occorre.
Oggi c’è una domanda ed un consumo di musica enorme se paragonato al passato, consumo inversamente proporzionale alle vendite dei supporti.
Un programma solo non può contenere tutta la musica, tutti i punti di vista.
Neppure il riassunto di questi.
Perché è il riassunto che uccide.
E la televisione di oggi è piena di minestroni.
Oggi la prima cosa che ci chiedono su Sanremo non è se ci piacque andarci o se ci divertimmo ma se ci servì.
Ebbene ci servì.
Definitivamente a capire la reale pochezza di tutto un ambiente, quello alternativo, che ormai non riesce neppure a diventare alternativo a se stesso. Pieno di regole, gabbie e poverissimo creativamente come mai in passato.
Ci servì per i motivi per i quali serve a tutti: la fama, la credibilità fra gli addetti ai lavori e la conseguente disponibilità nei nostri confronti da parte di una serie di entità che non ci avrebbero mai preso in considerazione prima.
Avere il potere per poter realizzare progetti.
Ci servì a fare una cosa piccolissima. Portare un messaggio senza dover vincere per farlo.
In fondo Sanremo è la sconfessione della cultura del vincere a tutti i costi che appartiene alla nostra epoca. Anche se la rappresenta. Anche se il format è costruito attorno a una gara.
Vincendo lì il più delle volte si viene fagocitati. Lunghissimo è l’elenco dei vincitori spariti nel nulla.
Si possono dire e fare molte cose non vincendo e a noi successe così.
Infine ci servì perché lo facemmo.
In fondo non stavamo mica andando alla guerra. Cosa ci eravamo immaginati?
Ne uscimmo rasserenati.
La gente è destrutturata culturalmente, non riesce più a distinguere il valore del vivere, perde il lavoro, parla e scrive usando pseudonomi allacciata con le cinture di sicurezza al divano, non ha più ideali e diventa nichilista rifacendosi naso, culo, tette, si ammala, muore ma continua ad avere una valanga di energia e a riversarla con tutta la violenza distruttrice di cui è capace.
Sul nulla.
E alla fine, miseramente, ti accorgi che questa è solo musica.
Perlopiù brutta, perlopiù finta, ma solo musica.
Per questo quando mi chiedono se lo rifarei non ho dubbi nel rispondere.
Certo cari. Ma solo se conviene.
Solo se conviene.

di Manuel Agnelli, La Repubblica

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