«Oggi il livello medio della musica pop mi appare bassissimo. Ciò che si ascolta e si vede in certi talent show è patetico. Per fortuna ci si può sempre rifugiare in certi geni del passato i quali, ogni volta che si ascolta qualche loro composizione, ci ricordano che la musica è un ponte tra la nostra realtà apparente e il divino». Chissà se, pronunciando queste parole, Franco Battiato si sia reso conto che in molti inseriscono anche lui nell’elenco di «certi geni del passato». Probabilmente, la risposta è no. Eppure lui, “il maestro”, resta uno dei riferimenti più alti della musica italiana.
Di musica – ma non solo – il cantautore parla con Giuseppe Pollicelli nel libro-intervista “Temporary Road – (una) Vita di Franco Battiato”, edito da La nave di Teseo, ripercorrendo la sua carriera e la sua vita lontano dai riflettori, nella Sicilia dove ha scelto di tornare a vivere perché – nonostante il successo mondiale – Battiato non ha mai amato la mondanità. «Non avevo idea di cosa fosse la fama – racconta -. L’ho capito, con gli interessi, dopo il successo inaudito de La voce del padrone». Era il 1981, Battiato aveva già inciso dieci album in studio. Patriots, uscito nel 1980, aveva venduto 100mila copie. «Io – spiega nel libro – pensavo che la mia dimensione fosse quella, ritenevo di avere già toccato il mio apice di popolarità come musicista».
Poi esce quel disco con la copertina in bianco e nero e le palme sullo sfondo e tutto cambia: La voce del padrone sarà il primo album italiano a superare il milione di copie vendute. «Come hai vissuto quel momento?», chiede nell’intervista il giornalista Pollicelli al maestro. «Non bene – risponde Battiato -. Volevo mollare tutto». Colpa dell’invadenza dei fan che lo assalgono nelle discoteche, gli strappano i vestiti e – addirittura – si nascondono nella sua camera di albergo con la complicità del personale.
Come ne è uscito? Disattendendo le aspettative del pubblico. Paradossalmente, è stato il fallimentare disco L’arca di Noè a salvare Battiato e a non fargli perdere il suo «centro di gravità permanente».
«L’aspetto positivo del pubblico italiano è che ogni tanto può spiazzarti – racconta -, accogliendo una canzone in una maniera che non avevi previsto, ma non ha la capacità di seguire un artista anche su piani diversi dal consueto. Gli italiani, tendenzialmente non amano le scommesse, preferiscono ascoltare sempre la stessa canzone piuttosto che avventurarsi su un terreno di novità».
Una vita dedicata all’arte: «Io sono stato creato, se così posso dire, soprattutto per fare canzoni», afferma Battiato che in un altro passo del libro ribadisce ancora meglio il concetto: «A un certo punto della mia carriera mi sono reso conto di essere venuto al mondo soprattutto per uno scopo: far conoscere alla gente argomenti ardui grazie a una musica fornita di una forte capacità comunicativa».
In ogni suo brano e in ogni sua risposta c’è una profondità che destabilizza, mette in soggezione, come le sue scelte radicali di solitudine: «La mia strada è quella – racconta- . Io penso che l’unione di coppia, potenzialmente, sia la condizione ideale per gli esseri umani: sono lo yin e lo yang che si fondono. Ma le combinazioni perfette sono rarissime, quasi inesistenti. Nella maggior parte dei casi si traducono in autentiche condanne. Per me è stato così: forse perché, banalmente, non ho mai incontrato la “persona giusta”». Un concetto ripreso anche nel testo della canzone Testamento in cui Battiato celebra «la libertà reciproca di non avere legami»: «È una ricetta di vita – spiega -. Amo stare con le persone con cui mi trovo bene, ma non voglio avere vincoli né imporli».
Francesca Milano, Il Sole 24 Ore