Ghemon: “Di soffrire non mi frega niente, adesso faccio attenzione a quando sono felice”

Ghemon: “Di soffrire non mi frega niente, adesso faccio attenzione a quando sono felice”

Si chiama “Scritto nelle stelle” il nuovo album di Ghemon, un cantautore unico in Italia, in grado di mescolare soul, R&B e rap come nessuno, senza mai perdere di vista la melodia. Il cantante ha raccontato a Fanpage.it come nasce quest’album, cosa vuol dire mettere se stessi in quello che si canta, ma anche di quanto è importante capire quando siamo felici.

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Non è raro, quando si parla di Ghemon, imbattersi in uno di quei discorsi in cui ci si chiede come sia possibile che sia uno dei maggiori talenti italiani, ma che non ha ancora riscosso tutto il successo che merita. Se lo chiedi a lui, sorride, si schernisce e parla di coraggio, di batoste, dell’importanza di essere se stessi e di “percorso”.

E ne parla con una tale naturalezza, con una tale onestà, che ti lascia disarmato. Onestà. Ecco un’altra parola che si sente spesso quando si parla di Ghemon: è uno vero, onesto. Ed è un’altra cosa vera e che lui stesso rivendica. Lui che è stato tra i protagonisti di quel genere che ha costruito un pezzo della propria identità sul concetto di rappresentarsi, quel rap che a un certo punto, però, non lo rappresentava più. “Scritto nelle stelle” è il terzo album della sua vita altra – non della sua carriera -, un album in cui Ghemon riesce a muoversi nelle sue varie anime, renderle musica, ma con un’impronta fortissima, un’impronta che ormai lo definisce e che lo rende diverso dal resto della scena italiana. Soul, R&B, cantautorato, una voce scoperta tardi e ormai diventata marchio di fabbrica e una capacità non comune di trovare melodie che fanno sì che le sue canzoni siano sempre orecchiabili, ma che – come nel miglior jazz, per esempio – fanno sì che ci trovi sempre qualcosa di nuovo, qualche sfumatura, qualcuna delle sue anime. Mollato il racconto di un periodo buio della sua vita descritto in “Mezzanotte” (album bellissimo, struggente e con un gran groove), con un Sanremo di mezzo di cui è stato protagonista con “Rose viola”, “Scritto nelle stelle” ci svela un altro momento della vita del cantante: un momento in cui al racconto del buio si sostituisce l’attenzione alla luce, si continuano a riconoscere le difficoltà che tutte le vite ti pongono davanti, ma con maggiore attenzione a ciò che ti fa stare su, che ti tiene a galla e che ti fa accorgere di quando sei felice.

Rispetto a Mezzanotte questo “Scritto nelle stelle” è un passo avanti ulteriore. Ci sei sempre tu, ma è il racconto ancora più cosciente chi è fuori da quel mondo e declinato anche maggiormente sul sentimento dell’amore, per esempio. Mi parli dell’approccio narrativo dell’album?

L’approccio narrativo nasce da una riflessione molto divertente, che però è comune a tanti artisti: se tu fai un disco in un periodo di depressione, in cui la tua vita è andata sottosopra, in cui la relazione coi tuoi amici, le donne, è andate sottosopra, hai comunque un dolore di fondo che è anche un motore, che ti fa pulsare la creatività. Prima di questo disco mi sono chiesto se fossi capace di scrivere senza soffrire: non lo so se sono abituato a scrivere per gran parte senza soffrire e poi raccontare qualche episodio felice, quando sono felice. Riesco a fare una cosa rilevante che è comune a tante persone, che è intensa, ma parlando della mia quotidianità? Una quotidianità fatta di riflessioni, fatta di momenti felici, di alti e bassi: riesco a essere vero anche in questo? Perché, sinceramente, a me di soffrire non frega niente, non è una cosa che desidero, non la voglio, e questo è stato il viaggio che ho cominciato con questo disco qui: non avevo voglia di ritornare sugli argomenti precedenti, non avevo voglia di nominarle certe cose, non volevo che l’energia di questo disco fosse turbata da quello che c’era prima, ma soprattutto non mi piace essere uguale a me stesso e fare una cosa che avevo già fatto, di conseguenza il viaggio di questo disco è concentrato sulle mie cose di tutti i giorni.

Nella tua musica Gianluca è sempre là: come si affronta il pudore di narrare se stessi, senza schermarsi dietro il personaggio del racconto musicale? 

Questa discussione sul pudore tra me e me è nata molto presto, facendo il rapper e prendendo una strada diversa. Il rap, soprattutto agli inizi, è una cosa che ti fa infilare un costume da supereroe, costruisci un personaggio – che magari non sei tu – di cui tessi le lodi o dici corna e peste. Umanamente questa cosa poteva essere divertente quando ero un ragazzino, ma poi mi ha annoiato perché mi annoiava l’apparenza. Ho iniziato a smettere di dire bugie, ho cominciato a dire sempre la verità e di conseguenza a espormi, che è una cosa che nell’ambito del rap era malvista: dicevo come stavano le cose, ovvero che soffrivo, che ero deluso o innamorato. Ci sono delle parti che tengo preservate, che restano private, ovviamente, però non saprei fare in un altro modo: per essere onesto devo essere io, devo dire le cose che ho visto, raccontare le considerazioni che ho fatto e il resto poi lo fa essere anche un buon ascoltatore e selezionatore. Ci sono cose ad esempio che non vivo io in prima persona, ma che vive qualcuno che mi è vicino: capire quando un amico ti racconta qualcosa, una frustrazione, un’esperienza, quanto hai in comune con quella cosa e farla diventare una categoria, una cosa da dire in una canzone in cui si possono rispecchiare tutti è un’altra parte del lavoro, che è meno biografica, ma rientra nell’osservazione.

Ho riletto i testi di Mezzanotte e ho notato come la dimensione sentimentale, amorosa, sia diversa rispetto a “Scritto nelle stelle”. In quest’album è una sorta di piolo di questa scala a cui ti sei aggrappato, c’è una sorta di riferimento all’amore salvifico… Come entra in questo racconto?

In tutti i miei racconti precedenti c’era un costante tendere all’amore salvifico – che, però, non sapevo qual era o che era deluso – nella speranza di trovare qualcosa che mi capovolgesse, c’era l’attesa di qualcosa che doveva succedere. Poi nella mia vita privata le cose sono cambiata, e sono cambiate in seguito a un percorso, cioè non è che un giorno ho avuto fortuna e ho trovato la persona giusta, ma ho imparato dalle cose che non sono andate bene prima che stavo cercando una cosa, ma la cercavo male: cercavo certe caratteristiche nelle persone sbagliate. Quella consapevolezza ti porta a trovare la persona giusta, salvifica, che ti accetta, che ti ama anche per i tuoi difetti e tu la ami per i suoi difetti oltre che per i suoi pregi. La persona che conosci per tempo, invece di innamorarti dell’idea che ti sei fatto di quella persona, che è un altro tema: gli innamoramenti fulmine, quelli per cui dopo poco ti rendi conto che quella persona non è quella che pensavi fosse, perché ha difetti che quando sei innamorato non hai visto e poi saltano fuori. È un amore salvifico ma è anche un amore adulto.

In quest’album c’è il soul, l’R&B, il rap, ma qualche tempo fa mi parlavi anche della scena inglese underground… mi parli di questa lunga ed enorme ricerca che stai facendo?

Quest’album risente sicuramente dei miei ascolti dell’house e del garage inglese, perché come ascoltatore sono un grande curioso e ho cominciato a esplorare territori che mi piacciono, soprattutto quando mi sono reso conto che avendo coraggio le cose, alla lunga, mi riuscivano. Questo disco qua è un disco in cui conosco un po’ meglio le mie caratteristiche e in cui ho messo un po’ di coraggio in più senza pensare troppo a come sarebbe stato accolto. Ho capito che il mio stile comincia a essere abbastanza solido, il che non significa che le azzecco sempre tutte alla prima, ma che gira e rigira riesco a levigare i pezzi, come un artigiano, in maniera tale che suonino miei e originali. Sinceramente questa è l’unica cosa di cui, credo, gli addetti ai lavori si siano accorti prima del pubblico. Però io non penso che sia sciocca questa mia ricerca nello sperimentare linguaggi che in Italia non sono mai stati approcciati in questo modo, probabilmente a volte non ne vedo gli allori dal punto di vista commerciale, ma continuo ad aprire porte che nessuno è andato ad aprire e a me dà tante soddisfazione.

“Mi hanno detto che ho numeri e colpi da vincente ma con le scorciatoie si sbanca prima il gioco. Io per tutta risposta vado controcorrente, il genio senza coraggio serve davvero a poco” canti in Buona stella e rappresenta questo che dicevi, dà la percezione della curiosità che ti porta a cercare una strada diversa. Tu lasciasti il rap quando stava diventando di moda e hai cominciato a seguire sonorità black che si declinavano in modi diversi. Quanto è difficile seguire una strada del genere, così poco battuta?

In effetti ho smesso di essere solo quello, ma mi sono riappropriato dell’essere quello perché fa parte di me. È difficile, è ovvio che lo sia: “Adesso sono qui”, “Un temporale” e “In un certo qual modo”- e possiamo annoverare anche “Rose viola” – sono tre singoli molto lontani tra di loro musicalmente, però dagli e dagli voglio riconoscermi questa cosa, il ruolo divulgativo. Probabilmente se ne accorgono un po’ di persone, però voglio continuare a camminare su territori e cose che mi piacciono, che non sono state esplorate, e che divulgano una materia che è poco conosciuta e abituano le orecchie alle persone, come hanno fatto i primi gruppi rap, o la seconda tornata. È stato un costante martellare su una determinata cosa finché quel suono non è diventato familiare, e allo stesso modo sto cercando di fare adesso: rendere familiare la mia firma nei confronti delle cose, seppure a un primo ascolto per qualcuno suoni ancora come “è bello, però non ho capito se mi piace”.

Però il tuo amore per la melodia, per il cantabile, e un enorme lavoro sulla voce aiuta in questo: i tuoi pezzi non sono ostici. In un’altra intervista dicevi che se c’è una cosa di cui ti penti è il non aver cominciato a cantare prima e nel booklet ringrazi la tua vocal coach…

Mi pento di non aver avuto coraggio prima, perché pensavo che non fossi fisicamente conformato per cantare. Poi ho fatto a cazzotti con l’italiano, perché certe melodie, soprattutto black, sono costruite su una struttura linguistica che l’italiano non ha: ho vinto delle mie sfide personali perché sono riuscito a mettere quel sapore a una lingua a cui non era mai stato messo, sono veramente pochi gli esempi. Chiaramente è tutto migliorabile, ma quello è stato uno stimolo. Per quanto riguarda il coraggio del cantare ci ho pensato riflettendo su una cosa che mi ha detto un po’ di tempo fa Rocco Tanica degli EELST: lui dice che io sono un melodista, ed è la verità, perché mi viene abbastanza facile costruire delle melodie, mi vengono idee costantemente, ma se dovessi dirti che so da dove ha origine questa cosa non saprei dirtelo. Ho iniziato facendo rap e probabilmente erano già là, ma proprio per pudore, rispetto dell’arte e per sistemi mentali che c’erano nel genere, non mi sono mai sentito incoraggiato o libero di poter percorrere quella strada, perché non ero sufficientemente bravo e quindi mi sarei preso, come mi sono preso, una valanga di insulti. Forse se avessi avuto incoraggiamento in alcuni momenti chiave forse questo momento sarebbe arrivato prima. O anche no, chi può dirlo.

Senti, in ORCHIdee c’era un approccio più strumentale, in Mezzanotte cercavi un compromesso tra l’anima strumentale e quella digitale, questa volta come ti sei mosso?

“Scritto nelle stelle” è un po’ più una via di mezzo molto più marcata verso la parte produzione, ma perché “ORCHIdee” doveva mettere un grosso punto, doveva dimostrare che una determinata cosa si poteva fare in un determinato modo, si poteva fare un disco rap con inserti di cantato interamente suonato, ma che non sembrasse musica leggera, cosa che poi abbiamo dovuto dimostrare anche dal vivo. “Mezzanotte” è stato il condimento di quella formula, perché abbiamo continuato tantissimo con gli strumenti ma avendo dimostrato che eravamo diversi potevamo inserire nuovamente altri elementi. E ora che il dubbio non c’è più e siamo cambiati, il salto l’ho potuto fare: non penso che se ascolti un pezzo come “Due settimane” possa essere scambiato per qualcun altro, soprattutto dopo “Rose viola” era abbastanza assodato che il sound era quello e che io ero io e che la parte prodotta si poteva rimettere dentro.

Uscire in un momento come questo ti/vi ha portato a cercare alternative, anche a livello di promo. Come avete pensato all’idea di creare video incontri con i fan: instore tour ma virtuali?

Anche lì, il genio senza coraggio non serve. Tante iniziative avremmo potuto conservarcele, ma abbiamo deciso di uscire perché forse sono uno di quelli che col tempo si è costruito una comunità di fan molto competente, quindi a loro una cosa può piacere o no, ma capiscono dove voglio andare a parare e sono quelli che mi supportano sempre. Prima di tutto hanno capito benissimo il primo spostamento di data, e lo hanno capito perché sanno che io gli dico la verità, gli spiego che ho speso più di un anno della mia vita in questo e vorrei che tutti ce lo potessimo godere in un altro modo. E sono gli stessi che mi hanno chiesto di farlo uscire, perché ne avevano bisogno, perché volevano sentire buona musica, e sono gli stessi che mi danno fiducia acquistando il disco in prevendita. Avere il coraggio di farlo uscire e fare instore digitale serve a essere riconoscente innanzitutto con loro.

In tanti, in questo periodo, dicono di non fermare la musica – poi, oh, dirlo senza disco in uscita forse è semplice – però è vero che si rischia che sia un cane che si morde la coda. Uscire adesso può essere un’opportunità?

Non fermiamo la musica, fermiamo le dirette di chi non ha nulla da dire, fermiamo i post di quelli che leggono un trafiletto e fanno tweet indignati, fermiamo le cose che non portano sostanza, ma continuiamo a dare fatti e sostanza alle persone, argomenti per alimentare il cervello. Sono uno che le dirette non le ha mai fatte prima di questo momento, per riservatezza, e non le avrei fatte se non ci fosse stata l’esigenza di rendermi utile a qualcun altro: non erano dirette utili per me, ma fatte per fare compagnia a chi era a casa, discutendo, parlando, raccontando. A quel punto non c’era da fare gli snob, c’era questo strumento, l’ho utilizzato e quando ho ritenuto fosse abbastanza ho smesso.

Un’altra delle cose di cui si parla è che la percezione di alcuni che tanto voi siete ricchi, quindi inutile parlare del problema Musica. Che ne pensi?

C’è ignoranza in materia per un po’ di motivi, e in parte anche per colpa nostra, degli artisti. Per esempio, faccio una tirata d’orecchie ai ragazzi che fanno trap: loro hanno massimizzato nel tempo una cosa che fa parte dell’hip hop, ovvero la parte più estetica, quella dell’immagine. Non ci frega del valore delle cose, dicono, vogliamo parlare delle cose belle che abbiamo ottenuto e che ci fanno sentire fighi, ma in questo momento fare questo e basta e non dire niente a chi ti segue, specie se sono giovani, vuol dire vivere in un altro pianeta. In questo momento non dire la verità è sbagliato, per questo dico che, a volte, è colpa degli artisti che vogliono far percepire solo la loro apparenza. Non dire che si è passati attraverso il fuoco o che si ha una scadenza delle tasse, come tutti quanti gli altri, o scrivere solo che hai fatto sold out significa che non stai dicendo tutta la verità. E la verità è che per costruirli, quei sold out, c’è voluta fatica, che hai dovuto fare gavetta, costruirti un percorso. Non dire che al tuo concerto così bello il set delle luci è quasi più importante delle tue canzoni, perché movimenta lo spettacolo visivo – con tecnici ben pagati che hanno costruito lo spettacolo – significa vivere in un altro mondo. Far percepire ai ragazzi che se svolti con la musica, quello che ti spetta sono le cinture di Gucci e una bella villa significa non dirgli la verità sul fatto che tutti gli artisti sono delle semplici partite Iva o delle imprese artigianali o delle piccole e medie imprese o delle vere e proprie aziende. Siamo delle società come altre, che in questo momento non stanno lavorando, che si fondano su un amministratore delegato, un Presidente ma anche su altre persone che hanno delle famiglie a casa, senza di cui non si può costruire: non è solo questione di essere un genio o di avere culo, è importante non far pensare solo questo ai ragazzi. Fargli pensare che ci siano scorciatoie per tutto è da irresponsabili, mentre se spiegassimo che il nostro lavoro è un lavoro perché faccio questo, questo e quest’altro ci sarebbe anche maggiore rispetto.

In più è un mondo che si è scoperto come categoria solo nella crisi…

Esiste Confindustria, esistono i Sindacati, ma noi non esistiamo. E sebbene non si possa dire che chi fa cover in un locale abbia le stesse problematiche di Tiziano Ferro, c’è comunque un filo rosso che unisce tutti e riguarda le tutele, il potersi sedere a un tavolo istituzionale per dire che esistiamo anche noi. Non abbiamo mai preso in considerazione questa cosa e forse è il momento che cominciamo a farla questa cosa.

In che modo la creatività sarà influenzata da questa cosa che stiamo vivendo?

Non so in che modo, ma sarà sicuramente influenzata almeno per quanto mi riguarda, anche se io ho già dato in quanto a malinconia e isolamento, quindi farò un disco di samba (ride, ndr).

Beh, non faticherei a credere anche a una cosa del genere…

Sì, ma vorrei che fosse una cosa celebrativa della vita e non delle privazioni, perché è lo stesso concetto di ridere delle proprie sventure, fare una cosa up, magari anche raccontarlo, per poterci sorridere su e muovere anche un po’ il sedere: è la mia personalissima sfida.

Senti, nei giorni scorsi vedevo un po’ di tweet che dicevano ‘Ti ho scoperto adesso’: come nasce il Ghemon tweetstar? Insomma, per chi ti conosce solo tramite i tuoi testi potrebbe sembrare strano vederti così esposto, sebbene si vede che è una cosa molto onestà.

Evidentemente gran parte dei miei colleghi manca di una buona dose di autoironia che io ho, soprattutto per quanto riguarda i miei difetti e le mie sventure. Anche per questo mi piace tanto la stand up comedy, perché c’è sempre un ragionamento su se stessi che porta a ridere e io sono il primo che ride delle cose che faccio e dei difetti. E proprio come gli stand up comedian preparano pezzi e li vanno a testare su un pubblico random, io faccio più o meno la stessa cosa con Twitter. Dopo Sanremo forse la cosa è stata amplificata ma anche prima – casomai con meno feedback -, scrivevo già quelle cose, quello è il mio tester, non so bene per cosa ma lo è. Forse è il tester per qualcosa di più ampio, più complesso, non so, però fa parte di me ed è una cosa che nelle canzoni non metto. Diciamo che l’essere diventato tweetstar è dovuto al Festival di Sanremo, che mi ha permesso di essere seguito da account popolari che mi fanno da ripetitori, però resto lo stesso deficiente di prima.

Senti, ultima cosa: ma la scelta di mettere in sottofondo un libro di Kurt Vonnegut nel video di Buona stella a cosa era dovuta?

Ma niente, è perché sta qui, nella mia camera da letto, anzi non è un caso… [mostra altri libri di Vonnegut, anche in inglese, ndr)

Quindi per citarlo possiamo chiudere dicendo che quando siete felici fateci caso?

Sì, certo, quando siete felici fateci caso, che è un grande insegnamento di questi giorni, perché si è talmente abbassato il ritmo di quelle che sono le priorità che io mi rendo conto nella videochat di fine giornata con gli amici, durante l’aperitivo, sono felice e in un altro momento sarebbe stata una cosa che, se avessi fatto, l’avrei fatta di corsa. Per questo godersi certi momenti, riuscire a essere allegri o felici è importante e rendersene conto sarà di insegnamento per dopo.


Francesco Raiola, Fanpage.it

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