Raffaella Leone: “Un western e un peplum, il cinema di mio padre continua a vivere”

Raffaella Leone: “Un western e un peplum, il cinema di mio padre continua a vivere”

A trent’anni dalla morte del regista della Trilogia del dollaro e ‘C’era una volta in America’, i suoi progetti trovano nuove strade

Sergio Leone è scomparso il 30 aprile di trent’anni fa, ma il suo cinema vive ancora e ha progetti per il futuro. Non solo Colt, il western antologico che ha al centro una pistola verrà annunciato a Cannes ed entrerà il produzione la prossima estate, ma anche un peplum, un kolossal rimasto nel cassetto, Le aquile di Roma. Dietro ai tanti momenti di ricordo dei suoi straordinari film – la bellissima Mostra che dopo essere stata presentata a Parigi arriverà in Italia – c’è il rilancio, curato dai figli Raffaella e Andrea Leone, produttori e distributori internazionali di primo piano.

Raffaella, suo padre è morto a 60 anni, ancora pieno di progetti.

“Papà se ne è andato due giorni prima di chiudere l’accordo complicato di coproduzione tra le case di produzione americane e il governo russo. Un progetto impegnativo di cui era sicuramente soddisfatto: la storia dei giorni dell’assedio di Leningrado, un momento tragico della seconda Guerra Mondiale raccontato attraverso una storia d’amore. Un progetto ambizioso, in un momento in cui, anche se non eravamo già più nella Guerra fredda, la Russia non era quella di oggi. Ed era riuscito a mettere in piedi la macchina sulla base del racconto, senza nulla di scritto, dell’inizio del film che aveva in mente. Sicuramente una dimostrazione di apprezzamento, fiducia, stima da parte di chi si impegnava in un film molto costoso, impegnativo a livello di budget”.

Dopo i problemi economici e di diritti che aveva avuto con il primo film, aveva deciso di prodursi da solo. Ed era molto portato anche per questo mestiere.

“Sì. Dico sempre che era da un lato un sognatore, dall’altro un uomo d’affari. Cose che in genere non collimano, ma in lui sì. Un pragmatico senso degli affari e un’anima creativa. Dal secondo film aveva iniziato ad essere coproduttore. Aveva aperto una società di produzione per i suoi film, cosa che gli è tornata utile nel momento in cui è stato fermo per dieci anni prima di C’era una volta in America. In quella fase è stato più attivo come produttore, ha prodotto Verdone e Montaldo, una serie di film anche belli che gli sono serviti a ingannare l’attesa”.

In quel periodo disse di no a ‘Il padrino’.

“Sì, perché voleva realizzare C’era una volta in America, aveva questo libro Mano armata, che non era fantastico ma che lo aveva ispirato. Il padrino sarebbe stato una sovrapposizione tra due film di gangster, anche se diversi, uno sulla mafia italiana, l’altro sulla malavita ebrea. Disse “io ho già un progetto che tratta argomenti di quel periodo storico. Voglio raccontare la mia storia”. C’era una volta in America è uno di quelli che ogni volta che si intercetta in televisione ci si ferma a rivedere, pensando a quanto racconti di noi.

In una intervista suo padre diceva: ‘Il mio cinema è legato al mito, ai fantasmi che ci appartengono’.

“Quel film, che è il mio preferito, così duro, è stato scritto in un momento lungo della vita, con tutto il tempo di vederlo e rivederlo, è un progetto sofferto che lo rappresenta tanto. Racconta di sé, del suo modo di guardare alla vita con un certo cinismo, il disincanto che arriva a una certa età e del bisogno che invece resta intatto di certi desideri e speranze che invece non muoiono. In tanti lo hanno definito la sua ricerca del tempo perduto. C’è tanto di questo in C’era una volta in America. Per questo in tanti ci si riconoscono”.

Quali erano i piccoli fantasmi quotidiani di suo padre?

“Era figlio unico, suo padre era morto giovane, la mamma è stata malata per tanti anni. Aveva un rapporto forte con la solitudine che viene fuori dai suoi film, i personaggi che sono isole. Questa era una delle caratteristiche che esorcizzava con un grande senso della famiglia, della condivisione totale. Aveva il piacere del clan di familiari, delle persone con cui amava condividere la vita. Era un grande intrattenitore, amava raccontare, leggere, era molto colto. L’amicizia è un tema che torna spesso, un mito. Anche se nella realtà sapeva che l’amicizia è molto difficile, e sei fortunato anche se hai un numero di amici che si conta sulle dita di una mano. Sì, uno dei piccoli fantasmi era questo”.

Chi è stato il grande amico di suo padre?

“Mia madre. In fondo direi lei. Nel senso che con lei ha condiviso moltissimo, anche se come in tutte le coppie c’erano discussione, attriti, liti. Ma fondamentalmente erano una coppia unita che condivideva le stesse passioni. Mia madre era il punto di riferimento artistico, leggeva lei tutto quello che passava per casa. Faceva da filtro, participava attivamente, anche se dietro le quinte e in modo discreto, quasi come un sussurro. Ma era una persona che papà stimava molto, il legame più importante. Gli altri amici? Penso ad Ennio Morricone, a Carlo Simi”.

È stato tradito da un amico?

“Sì. Infatti questo torna sempre. Lo so per certo e per queto era disincantato. Ma succede at utti: chi non è stato mia tradito?”

Perdonava o ricordava?

“Direi che ricordava, ma non era un uomo che portava rancore. Andava avanti”.

Si definiva figlio del Neorealismo, tra i registi che aveva affiancato amava citare Vittorio De Sica, che lo fece recitare come pretino in una scena di ‘Ladri di biciclette’.

“È vero. Era stato un giovane assistente di regia e parlava di De Sica che, al di là delle doti e capacità di regista, era un uomo straordinario. Ne era affascinato. Di quel periodo aveva un ricordo tenero, era fiero in modo buffo di questa partecipazione da attore. Ce la faceva rivedere spesso, per lui significava tanto, per noi era divertente, perché lo vedevamo diverso da come lo conoscevamo noi. Era una cosa piccola, ma per lui rappresentava qualcosa di forte, nel suo rapporto con De Sica. Sul set, in un giorno di pioggia, c’era stata l’invenzione di questo quadretto, un’idea intelligente e funzionale che lo aveva colpito”.

A un intervistatore che lo definisce padre del western risponde ‘non amo essere considerato padre neanche dai miei figli, che mi chiamano Sergio’.

“Questa cosa non è tanto vera. Io lo chiamavo papà. Però è vero in senso metaforico. Non era un padre classico, ci trattava come fossimo adulti da sempre, mi sentivo bambina e felice, ma ero trattata come persona, con una identità, rispettata e considerata. Le nostre opinioni, il modo di sentire veniva recepito dagli adulti di casa. Abbiamo condiviso tutto, non c’erano pranzi o cene a cui non potevamo partecipare. Il nostro era anche un rapporto di amicizia”.

I ricordi da ragazzina? Quale attore la colpì?

“Tanti flash, noi vestite a festa sul set di C’era una volta il west. Ricordo più le troupe che gli attori. Di sicuro mi ha colpito De Niro in C’era una volta in America, anche perché ero più grande, il primo film in cui lavoravo con mio padre. Avevo vent’anni ed ero consapevole. Robert era un uomo complesso, però molto affascintante. Importante”.

Di suo padre ha preso l’etica del lavoro e l’intuito per le storie. Altre cose piccole che ha ereditato da lui?

“Non so. Mi viene in mente mio fratello Andrea, che più cresce e più me lo ricorda. Nei tempi di reazione alle cose, nei movimenti, nella gestualità. In fondo gli somiglia moltissimo, ha molto di papà sia nell’approccio al lavoro che nei rapporti”.

Il ricordo più triste e quello più felice con suo padre?

“Il più triste è il giorno della morte. Definirlo triste è un eufemismo. Dopo trent’anni c’è ancora la rabbia, l’incredulità. Non riesco ancora a pensarci con serenità. È stato un buco nero. La cosa più felice? Ne ho tante. Il primo ricordo che mi viene in mente le lotte la domenica mattina sul letto. Avevo 5, 6 anni e c’era l’abitudine nel fine settimana, con mia sorella ci svegliavamo e andavano in camera da letto da lui e iniziavamo a fare una lotta sul letto, momenti di assoluta leggerezza”.

Del grande successo anche internazionale – da Tarantino a Green book – che oggi lei ha da produttrice suo padre le direbbe: “sono fiero”, “me lo aspettavo” o “non me lo aspettavo”…

“Un successo che condivido in tutto con mio fratello Andrea. Papà ne sarebbe fiero e mi piace pensare che se lo aspettasse in qualche modo. Parte del successo delle persone, se hanno questa fortuna, viene dal bagaglio familiare e culturale che si portano dietro. Sicuramente io mi sono sempre sentita sicura di quel che facevo che mi veniva dalla loro approvazione. Dal fatto che mia madre e mio padre mi stimassero e mi considerassero in quel che facevo e dicevo. La strada ti si apre, acquisti un po’ di coraggio che è quel che serve a volte per prendere alcune strade più che altre”.

La colpisce il fatto che il cinema di Sergio Leone sia ancora così conosciuto e amato nel mondo?

“Mi rende felice. È un misto. Qualunque figlio spera che quel che hanno fatto il proprio padre e la propria madre resti, è un modo per non farli andare via del tutto. Questo riconoscimento continuo a quel che hanno fatto insieme, questa presenza del suo lavoro e di quel che era è una bellissima sensazione. La percezione che tanto di lui sia ancora qui”.

Chi è il suo erede nel mondo?

“Ogni regista ha caratteristiche personali, difficile trovare un erede. Ma per la sua diversità, per quel che ha fatto, direi Quentin Tarantino. Anche se non è un erede, ma ha ha preso un’eredità e l’ha trasformata, come fanno solo i grandi. Direi lui se penso a quel che ha fatto, alla filmografia, appartiene a una generazione successiva rispetto mio padre, credo che i suoi film, il suo talento, la sua genialità abbiano le stesse corde di quelle di mio padre”.

Dopo ‘The hateful eight’ farete altri film insieme?

“Lo spero tanto, è stata una collaborazione importante. Ora questo nuovo film C’era una volta a Hollywood era impegnativo, un film major, e non c’era possibilità di accesso. Però sì, vorrei tanto rilavorarci”.

Finalmente partirà il set di ‘Colt’, il progetto di suo padre che girerà Sergio Sollima.

“Sì, l’idea di papà era di raccontare il west attraverso una pistola, la storia di questa pistola che passava di mano in mano e facendolo raccontava tante vite, tanti personaggi, tante realtà. Raccontava l’America, che era poi il suo soggetto preferito. Anni fa abbiamo provato a farne una serie ma era presto per farlo. Questa cosa è rimasta nel cassetto come altre cose, che vorremmo pian piano realizzare. Finché abbiamo incontrato Sollima e il lavoro che aveva fatto. Abbiamo pensato che poteva essere la persona giusta per racontare questa cosa, prendere questa eredità e trasformarla. Da lì è nata questa collaborazione. Abbiamo cominciato a lavorare a una serie televisiva, una storia che piacerebbe molto a mio padre, molto bella. Con alti e bassi, perché Stefano è stato impegnato, ha fatto Soldato in America è andata più lentamente di quanto ci fossimo prefissati all’inizio. Oggi sta prendendo una strada nuova: ne faremo un film, perché il progetto originale era quello di un film lungo, era quello il suo destino naturale”.

L’altro progetto nel cassetto di suo padre che vorrebbe far diventare realtà?

“Sì, c’è una delle prime cose che ha scritto, un peplum, un film sull’antica Roma. Fatto con il suo spirito, il suo modo di vedere le cose che è sicuramente anche ironico, particolare, con un taglio diverso. Si chiama Le aquile di Roma, una delle prime sceneggiature che ha scritto, una prima bozza. C’è lavoro da fare, però è una storia molto intrigante. Un’altra cosa che pian piano svilupperemo. Bisogna individuare il regista giusto per un progetto di quel tipo, capire poi se farne una serie o un film. Ora ci stiamo dedicando a Colt”.

È anche il modo di fare un altro pezzo di strada con suo padre…

“Sì, la cosa che ci siamo prefissati con Andrea, da quando abbiamo riacquistato tutti i diritti dei suoi film, a riuscire a rimontare C’era una volta in America e riproporla nella sua versione. Sono cose che ti fanno bene e che esulano dall’aspetto commerciale del nostro lavoro, sono cose che fai perché pensi che siano importanti e giuste. Ed è un modo per ringraziarlo”.

Arianna Finos, repubblica.it

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