L’artista pubblica l’autobiografia: «Scrivo delle mie due anime di musicista e padre»
Difficile dire che Omar Pedrini non sia rock. La musica. Gli eccessi. Il dolore. Dopo esser stato il leader dei Timoria, ossia di una delle band decisive del rock italiano, è andato avanti da solista senza far compromessi diventando un punto di riferimento della scena rock italiana. Ci sono brani come Milano non è l’America che sono diventati piccoli inni generazionali ancora capaci di risvegliare memoria e coscienze. E non era così facile a quel tempo perché, nel 1990, il rock italiano era creativo ma non popolare come si può credere oggi. E, come altri gruppi di quell’epoca, i Timoria si dannavano l’anima a furia di concerti ovunque e comunque, anche nelle condizioni più disagiate o sfortunate. Ora, tanti anni e tante cicatrici dopo, Omar Pedrini ha appena pubblicato Angelo ribelle (La nave di Teseo, 208 pagine, 16 euro) che non racconta soltanto la sua vita ma riassume uno spirito: quello anarchico di chi, con la voce e la chitarra, ha raccontato la propria vita concerto dopo concerto, disco dopo disco. «Dopo che è uscita la mia biografia Cane sciolto, arrivata alla terza edizione, molti mi hanno chiesto perché non avevo scritto io stesso la mia vita. Sarebbe bello, mi dicevano. Poi è successo qualcosa che mi ha fatto prendere la decisione».
Cosa, Omar Pedrini?
«Mi ha chiamato Elisabetta Sgarbi per farmi la proposta. E allora mi sono detto: Caro Omar, questo è un treno che passa una volta sola». Ero in tour e quindi ho spiegato che avrei potuto scriverla durante le pause del tour».
E cosa le hanno risposto?
«Fai come se fosse un concept album della tua vita. Il concept album è una forma di pubblicazione che mi piace molto».
Anche il titolo è concept?
«Certo. Angelo ribelle rispecchia le mie due anime. In molte cose mi comporto da angelo, da persona pura. In altre sono stato un ribelle. La mia vita è una sorta di libretto situazionista».
Lo riassuma.
«È la storia di una persona mai stata privilegiata e che ha avuto una infanzia molto povera. Il mio bisnonno era liutaio, mia nonna chitarrista. Tra le pagine di questo libro, mettendo insieme episodi esagerati e riflessioni intime, spiego anche l’importanza dello studio e i pericoli delle droghe. E non lo faccio con i toni del professore saccente. Lo faccio con le parole di chi ha vissuto le cose di cui parla. Perciò mi piace parlare alle nuove generazioni, ai giovani, a chi può non aver ancora capito certe cose».
Ad esempio?
«Mi sembra di aver capito che le nuove generazioni siano più sfortunate della mia, sia per la crisi che per i cambiamenti climatici che per tante altre cose. Mio padre mi diceva: studia e avrai un buono stipendio. Oggi un padre si riduce a dire di studiare e basta».
Ma non è la solita storia che una volta si stava meglio?
«Non è un confronto ma una considerazione. A 16 anni a noi bastava una chitarra per poter sognare di cambiare il mondo. Adesso a 16 anni i ragazzini si ritoccano le foto da postare sui social».
A proposito, i suoi figli?
«Pablo è all’università e tra di noi c’è una lotta acerrima perché è fuori corso, perde tempo e io lo stimolo a recuperare…».
Il solito ruolo del padre.
«Non avrei mai pensato di mettermi in questa situazione. Ma credo sia un bene per ui e quindi faccio ciò che è bene per mio figlio».
Invece Emma?
«Sta bene, ha cinque anni e mi rende felice anche lei».
Il suo ultimo disco si intitola Come se non ci fosse un domani.
«Una situazione che vivo ogni giorno. Ho scoperto di avere un problema congenito al cuore, sono stato operato a cuore aperto, ho rischiato la vita. Ogni sei mesi faccio il mio pit stop in ospedale. Perciò navigo a vista, prendo impegni da sei mesi a sei mesi…».
Come è andato l’ultimo pit stop?
«Mi hanno detto che il cuore si è mosso di un millimetro. Ero un po’ dispiaciuto, ma mi hanno detto che potrebbe essere un errore. Io ci credo. E a febbraio ritorno in tour».
Paolo Giordano, il Giornale