Adorato da schiere di fan, patient analizzato (e promosso) da esigenti cinefili, puntualmente premiato da successo di critica e di pubblico, Quentin Tarantino ha capito che l’Italia è un po’ la sua seconda patria non solo per il debito creativo che lo lega a Sergio Leone, non solo per il sodalizio che porterà il maestro Ennio Morricone sul palcoscenico dei prossimi Oscar, ma proprio perché qui avverte ogni volta una forte corrente di simpatia. Per adesso ha imparato a sillabare uno strano «grazie» e un buffo «paorazzi» (al posto di paparazzi) ma, per il futuro, si può sperare in qualcosa di più. Adrenalinico e irruente, fiancheggiato da due dei suoi attori, Kurt Russell e Michael Madsen, e da Morricone che lo paragona a Wagner «perché voleva unificare tutte le arti in uno spettacolo», l’autore risponde attento a ogni domanda, paziente, gentile, partecipe.
Di «The Hateful Eight» si dice che sia il suo film più politico.È d’accordo?
«Non ho deciso a tavolino di fare un film politico, però forse lo è diventato mentre scrivevo. Sicuramente contiene riferimenti alla realtà di oggi, allo scontro tra democratici e conservatori, poi durante il periodo delle riprese si è verificata una serie di eventi che ha reso il film ancora più pertinente all’attualità. Insomma, può succedere di essere fortunati, e di ritrovarsi in sintonia con lo “zeitgeist”».
Rispetto ad altre sue opere, questa ha un impianto decisamente teatrale. Giusto o sbagliato?
«Sì, non è un film fatto di trucchi e accorgimenti per bruciare le tappe, qui tutti i personaggi sono in scena nello stesso luogo e a mano a mano si presentano, scoprendosi spesso diversi da come sembrano».
L’unica figura femminile della storia, la condannata a morte Daisy Domergue, è dipinta come una megera, oggetto di continue aggressioni. Perché ha voluto una donna e non un uomo nel suo ruolo?
«L’ho sempre immaginata così, anche se so che con un maschio di 140 chili al suo posto, il senso del film non sarebbe mutato. Mi piaceva che fosse una donna perché la sua presenza complicava la storia e comunicava al pubblico più emozioni».
La discriminazione razziale è uno dei temi centrali del film, il suo attore Samuel L. Jackson non è stato candidato ai prossimi Oscar e la polemica per le nomination troppo «bianche», impazza. Lei che ne pensa?
«È ovvio che sia dispiaciuto per Samuel L. Jackson, meritava la nomination. Comunque altro che boicottaggio, non sono stato nominato e quindi non andrò agli Oscar, ma se lo fossi stato, ci sarei andato eccome».
In «The Hateful Eight» passa da un genere all’altro, western, giallo, mystery.
«Sì, forse è perché non riesco a fare tutti i film che vorrei e allora tendo a condensarne cinque in uno. Stavolta stavo facendo un western, ma poi ho scritto una specie di Agatha Christie da camera. Meglio, così il pubblico paga un biglietto e vede vari film».
Su tutto incombe una terribile tempesta.
«La bufera è come un mostro che sta oltre la porta e aspetta di divorare chiunque provi a uscire, più si fa notte e più fa paura».
Ha voluto che «The Hateful Eight» fosse girato nel «glorioso» 70 mm e nel formato Ultra Panavision. La battaglia tra pellicola e digitale è un po’ come quella fra indiani e cowboy?
«Forse sì, e mi auguro che la pellicola sopravviva più lungo degli indiani, i quali comunque hanno combattuto e resistito ai bianchi facendogliene vedere di tutti i colori».
FULVIA CAPRARA, Repubblica