Dalle infinite prodezze di Matteo Salvini nei talk show alle risate tristissime di “Colorado” e simili. Passando per Balivo, sickness D’Urso e il solito Vespa, senza dimenticare la litania dei talent all’ennesima edizione. Manuale spiccio di ciò che è il caso di lasciarsi alle spalle
L’immagine è estrema, spiazzante, definitiva. Sconcertante in un certo senso. Al centro della tele-scena, tornando con il pensiero al 15 novembre, troviamo madame Barbara D’Urso. Nel cuore di Parigi due giorni prima è esploso l’inferno. Cellule terroristiche hanno seminato per la città il cancro del panico e della morte di ragazzi incolpevoli. L’Europa s’interroga sul suo presente e futuro incerti. Ovunque, all’estero, prevalgono il cordoglio e l’analisi. Mentre in Italia non sempre è la lucidità a prevalere; e non, in particolare, sotto i riflettori di Mediaset, dove la mattatrice dello Speciale-Strage è la titolare in cattedra di “Domenica Live”. Colei che nel curriculum personale ed emozionale vanta, accanto a una serie di show evitabili, un’inesauribile collezione di smorfie e super smack al pubblico. La strada (poco) maestra che le garantisce in automatico empatia e ascolti. Dunque eccola, l’anchor-trash di casa Berlusconi, che con il piglio delle occasioni speciali si rivolge così ad Angelino Alfano, capo del Viminale e ospite in collegamento: «Ciao ministro!». E ancora: «Sai bene, ministro, che nel Paese c’è grande allerta…». E ancora ancora: «Ho la possibilità di averti in diretta, spiegaci: dobbiamo avere paura? E cosa farà il governo, per evitare che abbiamo paura?». Non è stato soltanto il funerale del buongusto e della professionalità, quel cicaleccio a base di “tu” e confidenza esondante: a questo, in effetti, già si era abituati. È stato, invece, il crollo dell’ultimo mattone di un muro: quello che fino a lì aveva diviso il contenitore delle somme tragedie da quello delle somme farse. Mai il barnum di uno show basato sul flusso delle Romine e Al Bani, di parenti di Alberto Sordi in conflitto furente per l’eredità e di altri mille protagonisti del pop nostrano, si era elevato a interprete di emergenze transnazionali. E dunque ora che è fine dicembre, ripensando a quella giornata, e apparecchiando il tavolo delle aspettative per il 2016, l’augurio da porgere ai televedenti è quello che tanta pochezza resti nel passato, e non torni a palesarsi nei mesi a venire. D’altronde un tempo – antico, in bianco e nero e da un pezzo svanito nel nulla – si usava a fine anno scrivere articoli sul meglio della tv in arrivo. Usanza che oggi induce al sollazzo e alla consapevolezza che la necessità è mutata. Nel senso che la domanda chiave, adesso, corre in direzione opposta, e consiste nell’interrogarsi su cosa si spera con tutta l’anima di non rivedere nella stagione entrante. Quesito, va detto, tutt’altro che elementare. Perché il problema di base non sta nella singola trasmissione, o nel dettaglio di una certa sera per via di un certo conduttore. Il vero guaio, invece, consiste nella bugia più scaltra mai messa in circolazione: cioè che i vertici delle principali televisioni abbiano fame e smania di produrre programmi di qualità, aggiornando in sincrono il panorama dell’immaginario pubblico. Un maremoto di retorica dietro al quale spunta una verità più sincera e triste; che consiste, senza sforzi di fantasia, nel fatto che l’unico impegno effettivo è quello di restare a galla. A qualsiasi costo. Con qualunque formula e artificio. Persino spacciando al pianeta Terra il prossimo ritorno del “Rischiatutto” ad opera di Fabio Fazio, non come un ammicco strategico al club della nostalgia, ma quale nobile omaggio al grande Mike Bongiorno. Che buio feroce. Che avvilimento cronico. Siamo qui tutti armati di pinne, fucile ed occhiali (visto che anche la neve, a questo punto, è utopia) per tuffarci nel 2016, e nella mente spuntano i tele-momenti che vorremmo cancellare per sempre. Penso ad esempio, tra i brividi, al cumulo delle ospitate concesse a Matteo Salvini e alle sue geofelpe: in apparenza scelta dei talk show per testimoniare l’ascesa dell’onda destroide, ma in sostanza scorciatoia per acquisire share. Come quando in video, anche nel 2015, è apparsa in loop Daniela Santanchè, e pareva quasi d’udire sottotraccia il gaudio degli autori causa ascolti sicuri. Per non parlare della serata in cui Corrado Formigli, maestro di inchieste e reportage sul campo, forse mosso da invidie per le vette raggiunte dalla “Quinta colonna” deldebbica e “La gabbia” paragonica, ha scolpito su La7 i limiti di “Piazzapulita” lasciando che il direttore Mario Giordano e il filosofante Massimo Cacciari si scannassero in allegria. «Mai più nel 2016!» , è il coro che tutti dovremmo intonare sotto l’albero, sperando che il bambinello intanto non si turbi nel presepe accanto. E mai più, anche, sull’altro lato del video-grottesco, vorrei ridere – anzi in effetti non ridere, ma stranirmi in preda a rigetto da telecomando – per la sfilata degli show a base di risate a cottimo. Quelli, per essere affettuosamente chiaro, che hanno avuto come padre e madre lo “Zelig” di Canale 5, killer dell’umorismo inteso quale elaborazione creativa, e paladini invece di uno sghignazzo precox maturato nell’arco di tre minuti di sketch. Show come “Colorado”, insomma, di cui nessuna mancanza sentiremmo, e che ancora insistono a occupare il telespazio italico con la furbesca scusa che «Sai, i giovani… a loro piace questa roba… e poi fa premio sempre la semplicità». C’è la speranza vera, concreta, che tutto questo diventi merce da archivio, e non prospettiva cronica per l’anno e gli anni entranti? Posso chiedere, con la dovuta dolcezza e garbo, di affidare a Caterina Balivo la conduzione di un adventure-game sull’Everest (tempo di lavorazione: dieci, quindici anni minimo) per non rischiare nel 2016 di ritrovarla su Raidue alla guida di un altro “Monte Bianco”? E soprattutto: c’è qualcosa che si può fare e scrivere per arginare il presenzialismo di Bruno Vespa, anche quest’anno premio Massimo Imbarazzo con la puntata di “Porta a Porta” sul clan Casamonica, e la promozione – questa sì, davvero porta a porta e trasmissione a trasmissione – del suo tradizionale exploit saggistico? Temo che la risposta più onesta sia composta dal matrimonio tra la lettera “n” e la sorella “o”. Inutile sperare che il Meglio trionfi, o perlomeno che il Peggio si faccia da parte. Inutile pure sperare che i mandanti del “Grande Fratello”, mossi da tardivo rimorso, la smettano di recludere giovani umani nella Casa di Canale 5. Tale e tanta è l’attenzione ai nuovi standard tecnologici, e ai prossimi equilibri tra le multi-piattaforme, che ai colossi stanchi della tv generalista è sfuggito un dettaglio: quello non secondario dei contenuti e di chi dovrebbe realizzarli in azienda. Flop-format dopo flop-format, “Processo del lunedì” biscardiano dopo “Processo del lunedì” varialesco, telequiz dopo telequiz, Sanremo dopo Sanremo, Bonolis dopo Bonolis o Costanzo dopo Costanzo (per il 2015 addirittura in versione duplex: conduttore su Retequattro del salotto omonimo e direttore artistico per Raiuno di “Domenica in”), l’unico futuro spendibile resta nelle mani delle migliori serie: di norma americane, ma anche europee ed italiche (da “Gomorra” a “1992”, premiando l’impegno Sky). E queste sì che vorrei ancora (ri)vederle nel 2016. Perché protette dall’ambiguità del falso, per definizione hard business del ramo, riescono ancora ad azzannare la realtà. Sempre meglio dell’ennesima edizione delle padelle-glam di “Masterchef”, in corso con l’aggiunta del barbacuoco Cannavacciuolo, o della progressiva plastificazione del miracolo (tele)visivo di “X Factor”: lunare, in quanto a produzione e classe, ma privo del coraggio indispensabile per trasformarsi da forma a sostanza.
di Riccardo Bocca per L’espresso