A Venezia con ‘L’orto americano’ ho creato tensione

A Venezia con ‘L’orto americano’ ho creato tensione

“Per me è stata la decima volta a Venezia. Un lungo percorso iniziato nel 1983 con il mio film ‘Una gita scolastica’, poi sono stato lì anche in veste di giurato. Ho pure realizzato un film sul Festival di Venezia intitolato ‘Festival’, con protagonista Massimo Boldi.” Lo racconta il regista Pupi Avati a ‘La Ragione’, che con il film horror ‘L’orto americano’ ha chiuso la 81esima Mostra del Cinema di Venezia. “Il pubblico mi ha accolto in modo trionfale e riconoscente, forse perché dopo diversi film che inducevano alla riflessione, il mio invece ha creato tensione,” aggiunge.

“Dal 1968 – prosegue – ci sentimmo tutti liberi di fare qualunque cosa, soprattutto sull’esempio francese. Ereditammo questa idea di cinema d’autore per cui si smise di scrivere ‘regia di’ ma ‘un film di’. Sintetizzava il fatto che il film era di proprietà intellettuale di una moltitudine di persone e da qui il cinema d’autore.” Ma poi, il cambio di rotta: “Me lo ricordo da ragazzo quando dicevamo ‘questa sera mi voglio divertire!’ – continua durante la lunga intervista Pupi Avati – e andavamo a vedere un film con Jerry Lewis, oppure ‘stasera mi voglio spaventare!’ e andavamo a vedere un film di Hitchcock. Ecco, nel tempo ogni autore è diventato genere di sé stesso. C’è il genere Moretti, il genere Amelio, il genere Garrone che sono delle eccellenze, ma ci sono anche dei sottoprodotti che non hanno qualcosa di totalmente personale da dire. Tornare con un po’ di umiltà a considerare i generi, in un momento di crollo verticale nel rapporto fra la proposta italiana e il suo pubblico, mi sembra che sia un tentativo doveroso da fare. Se non altro una considerazione da non sottovalutare.

‘Non è il grande budget che fa la qualità di un film, è il grande cuore di chi lo racconta, delle persone coinvolte, la bellezza della storia.’ Alcuni, dopo la proiezione de ‘L’orto americano’, hanno sentito il bisogno di menzionare il cult del 1976 ‘La casa delle finestre che ridono’, facendo un accostamento all’ultima pellicola in bianco e nero che presto sarà nelle sale. “Io mi ritrovo in una coerenza – spiega ancora il grande regista – Ci si stupisce se sono coerente. Sono un regista eclettico, forse il più eclettico del cinema italiano; praticamente ho raccontato tutti i mondi, non mi sono privato del piacere di affrontare contesti diversi e delle opportunità narrative che mi offre la fantasia”, chiarisce Avati a La Ragione.

In questo periodo si sta parlando molto della situazione di crisi del cinema in Italia, di come le realtà indipendenti soffrano per l’attuazione di alcune normative dannose per le piccole produzioni. Qual è il suo pensiero? “Io amo ancora il basso costo, bisognerebbe dare vita a una cattedra del basso costo perché i grandi capolavori del cinema italiano sono stati realizzati in larga parte con mezzi molto contenuti,” risponde Avati. “Non è il grande budget che fa la qualità di un film, è il grande cuore di chi lo racconta, delle persone coinvolte, la bellezza della storia. Oggi bisogna trovare una forma di ragionevolezza, una forma di mediazione. Nel nostro Paese, purtroppo, prevale la politica sulla competenza,” conclude.

Torna in alto