Nel 1930 fu protagonista di «La canzone dell’amore», primo film parlato italiano
Al cinema Corso di Milano, nel centralissimo Corso Vittorio Emanuele, una folla così non l’avevano mai vista. Da giorni le locandine della città annunciano l’arrivo del «più stupefacente spettacolo del mondo» e nessuno se lo vuole perdere.
Persino dai quartieri più periferici della città, Borgo Pirelli, Villapizzone, Rocchetto sul Naviglio, centinaia di milanesi si riversano nel centro come un’onda, in piena esaltazione collettiva. La stessa euforia che travolge il Supercinema di Roma, la sala scelta per proiettare il primo film sonoro in italiano, il 7 ottobre 1930, in platea anche Mussolini e il ministro Bottai: il film «che parla», come si diceva allora, è la più sconvolgente rivoluzione del cinema, le colonne d’Ercole del futuro, il «più stupefacente spettacolo del mondo».
La canzone dell’amore, il film che parla, è figlio delle Novelle per un anno di Luigi Pirandello, e delle musiche di Cesare Andrea Bixio che due anni più tardi scriverà Parlami d’amore, Mariù. La ragazzina con cui il cinema comincia a parlare, è una ventunenne rodigina di buona famiglia e di larghe vedute, si fa chiamare Dria Paola, ma il suo vero nome non finisce più: Pietra Giovanna Matilde Adele Pitteo. È la timida diva di uno star system femminile un po’ disordinato e provinciale che, pur rinnegando Hollywood, si ispira a quel modello. Lei è la Mary Pickford italiana, la fidanzatina che ogni bravo ragazzo sogna di sposare, la «mogliettina giovane e carina tale e quale come te» di chi canta Mille lire al mese, la più amata dagli italiani a cavallo tra le due guerre. Ha una mamma bellissima come lei che a Rovigo apre il Caffè Borsa, il salotto buono della città, e un papà che vende armi da caccia e, anche se a battezzarla in Duomo è il cardinale Boggiani, è figlia di un miracolo e di una premonizione. La sera prima che un bomba di guerra distrugga il palazzo dove abita e il convento di fianco, implora la mamma davanti al lume di una candela: «Questa notte dobbiamo andare via di qui, mamma, cerchiamo rifugio in uno dei paesini qui vicini, ma andiamo via». Racconta: «Tra le macerie trovarono solo i capelli di una suora legati con un nastro. Sembravano recisi con un rasoio».
Adele detta Dria sembra una ragazzina delicata, ma è una carezza in un pugno. La scopre Alessandro Blasetti con il muto Sole, è graziosa, un po’ impacciata, forse troppo manierata, l’ideale per incarnare signorine indifese e vulnerabili, fidanzate lacrimose e sempre in pena in film d’avventura e melodrammi sospirosi. Piangere, del resto, le riesce benissimo. «Gennaro Righelli, il regista, non voleva ricorrere al vecchio trucco della glicerina e pretendeva che io soffrissi. E io piangevo, piangevo, piangevo…». Quando recita, nei gelidi studi della Cines, tiene in bocca dei cubetti di ghiaccio perché non si veda il fiato, finisce sui giornali anche perché insegue e cattura un ladro, come in uno di quei film che non le fanno mai interpretare. Le affidano invece personaggi semplici, teneri, affettuosi. Non ha la bellezza fatale di Doris Duranti, l’aria della ragazza della porta accanto di Maria Denis, il fascino ambiguo di Isa Miranda. Ma per vent’anni e una trentina di film, l’ultimo è Pantera nera nel 1941, ha un popolarità che gareggia con quella della Garbo.
Gli ammiratori le riempiono casa di lettere «quasi io fossi il presidente americano Hoover o un premio Nobel». Persino Fellini, ragazzino, è innamorato di lei. C’è chi le scrive: «Se non avrò un vostro rigo e una fotografia mi arruolerò in Tripoli, nelle sabbie ardenti del deserto del Sahara», chi si presenta nella notte davanti a casa sua a cantare la serenata scortato da ventitré accompagnatori. Risponde a tutti, ma senza mettere il francobollo: «mi rovinerei a spedire tutte quelle lettere…». I suoi compagni sono Vittorio De Sica, Ettore Petrolini, Amedeo Nazzari, tiene a battesimo Erminio Macario, Alberto Sordi e Totò, Anna Magnani le fa da spalla ne La cieca di Sorrento. La popolarità non le dà alla testa. Cita D’Annunzio: «Il nostro lavoro è fatica senza fatica».
Si ritira appena dopo i trent’anni, a guerra appena iniziata, per sposare un commerciante romano, va a vivere in un luminoso attico di via Latina e il suo ricordo svanisce come in una nuvola di cipria. Tanto che solo quando se va per un infarto a 83 anni, dimenticata dal cinema e dalla sua terra, si scopre che a darle da vivere è la legge Bacchelli, quella per chi non ha più niente. Ma 120 anni dopo la sua nascita, cioè il 21 novembre prossimo, la Mostra del cinema di Venezia le aprirà una finestra: il primo premio Dria Paola, istituito dalla Polesine film Commission di Angelo Zanellato, sarà consegnato a Renato Cecchetto, polesano come lei, e la storica del cinema Silvia Nonnato pensa a una mostra, tutta dedicata a lei, da fare nella sua Rovigo. Così la ragazzina che ha fatto parlare il cinema forse uscirà finalmente dal silenzio.
Il Giornale